“And I try – o my God do I try – I try all the time in the institution
Mentre scrivo questo post, sto ascoltando una persona ricoverata in psichiatria discutere con la dottoressa: il paziente chiede di essere aiutato a prendere in affitto una mansarda su cui attivare un servizio domiciliare di educatorə e infermierə, mentre la dottoressa gli comunica che passerà prima da una villa (i grandi ricoveri che hanno sostituito i manicomi). Il dialogo avviene più o meno così:
Paziente: ma se vado in villa mi toglieranno il telefonino e mi sentirò solo. Ho paura che rimanendo senza contatti andrò in paranoia.
Dottoressa: se glielo tolgono, è perché c’è un motivo che lei non sa.
Chi frequenta il sistema sanitario conosce le modalità più evidenti di istituzionalizzazione che hanno sostituito la violenza dei manicomi dopo la riforma Basaglia: dosaggi farmacologici che rendono le persone simili nella postura e nella camminata “zombesca”, rallentate nell’eloquio e nei movimenti; servizi in cui ancora si lega ai letti o in cui gli internati devono avere il permesso del medico per uscire a prendere un caffè ecc ecc. Queste pratiche derivano sì da un’organizzazione del welfare estremamente medico-centrica e incurante dei diritti individuali, ma sono anche l’attuazione concreta di un’istituzionalizzazione invisibile – e quindi più subdola – che definisco relazionale.
La dottoressa descritta sopra agisce il proprio potere in due modi:
- Decidendo del destino della persona senza ascoltare la sua opinione in merito
- Impostando la relazione e il dialogo con il paziente in modo da impedirgli di sviluppare una volontà capace di rompere le sbarre dell’istituzione.
Voglio concentrarmi su quest’ultima modalità, che spesso noi operatorə del sociale attuiamo inconsapevolmente. La dottoressa dice: “se le tolgono il telefono, è per un motivo che lei non sa”: con pochissime parole, sta affermando che la persona non ha il diritto di decidere come e quanto usare il proprio cellulare; che la persona non è in grado di decidere come e quanto usare il proprio cellulare; che la persona deve delegare la gestione del proprio telefono a qualcuno che non ha scelto lei; quindi che la persona non possiede le competenze per scegliere come vivere e che queste competenze appartengono solo a non-si-sa-chi. Oltre a privare l’interlocutore dei propri diritti, la frase della dottoressa lo priva di qualsiasi possibilità di parola sulla propria vita e dell’autostima necessaria per prendere decisioni su di sé. I soggetti che vengono affermati da questo dialogo non sono più una persona in ruolo di medico e una in ruolo di paziente, ma un dio (non-si-sa-chi) onnisciente e onnipotente dinnanzi a un individuo che può scegliere se credere ed essere salvato, oppure ribellarsi e patire la conseguente punizione.
Subito dopo la chiusura della conversazione che ho riportato, la dottoressa ne apre un’altra con un uomo che è spesso polemico con la gestione del servizio: costui a volte alza la voce e si lamenta del fatto che il proprio letto è posizionato in corridoio e non in una camera, che non prende luce, che non ci sono attività destinate alla riabilitazione e alla ricreazione dei pazienti. A volte urla anche accuse paranoiche su deodoranti rubati, fino a quando non li ritrova. Tuttə lo sentono, perché il suo letto è davvero in corridoio, senza armadio o possibilità di privacy. A questa persona la dottoressa dice: “ti ricordi quando ti ho visto al supermercato qualche tempo fa? Eri adeguato. Questo significa che sai come ci si deve comportare”. Come quasi sempre avviene nei servizi sanitari italiani, in questa affermazione la richiesta viene scambiata per follia. Come se fosse una “roba da mattə” la voglia di avere uno spazio personale dove prendersi realmente cura di sé.
L’adeguatezza di cui parla la dottoressa è troppo spesso l’obiettivo dei progetti e dell’agire educativo. A fine turno, quando si deve scrivere come sono stati glə utentə nelle ultime ore, di solito si sintetizza con un “adeguatə”. Cosa significa? Che la persona ha aderito alle regole sociali e alle norme del servizio. Il problema è che le regole sociali sono anche quelle che governano e organizzano l’ingiustizia, che stigmatizzano le neurodivergenze, che silenziano le proteste e patologizzano le identità. Nel servizio in cui lavoro, per esempio, si è adeguatə quando si rispettano le regole di genere: se una persona non binaria che usa pronomi neutri e maschili (lui li usa, glə educatori no) si mette una gonna, riceve i complimenti da tutta l’équipe. “Come sei bella”, “finalmente usi quello che hai nell’armadio”, “ma guarda come stai bene in abiti femminili”. L’esplosione di malessere e morte interiore che queste frasi provocano in chi le riceve si può percepire a chilometri di distanza. Ma in quel momento glə educatorə non vedono l’ingiustizia in corso, non si accorgono di stare calpestando l’autodeterminazione di un individuo, non comprendono neanche perché quella persona manifesti un malessere: vedono solo adeguatezza, e con l’adeguatezza la guarigione.
Credo che i processi che ho descritto non siano quasi mai attuati consapevolmente: i professionist* coinvolt* nelle dinamiche sopra son davvero convint* di compiere il bene. Come me, come noi.
Riversiamo in quel potere le frustrazioni che non abbiamo la forza di vivere, l’ansia di non essere abbastanza, la stanchezza di turni eterni. Diventiamo così istituzione: siamo noi le sbarre alle finestre e intorno alla persona, i lacci intorno ai polsi e l’umiliazione; siamo profetə di religioni malsane e legislatorə non elettə; siamo noi le regole sociali soffocanti, perché noi le produciamo giorno dopo giorno con le nostre parole e i nostri gesti.
Lavorare in ambito sociale significa rinunciare in ogni istante al proprio potere: analizzare le parole prima di pronunciarle; imparare a non dare per scontate le norme che ci hanno cresciutə; farsi più piccolə per dare all’altrə lo spazio per definirsi; stare zittə ogni tanto, e ascoltare.
E poi tornare a casa con la consapevolezza che abbiamo fatto una piccola parte, abbiamo consolato quella creatura distrutta dai complimenti sulla gonna, e che questa piccola parte potrà forse costituire un breve appiglio per affrontare le ingiustizie. Ma non sarà mai abbastanza.
Non rimane che accendere la macchina e riempire le casse dei 4NonBlondes: and I try – o my god do I try – I try all the time, in the institution.
And I pray – o my god do I pray – I pray every single day, for a revolution.