– Oh my god, do I try

“And I try – o my God do I try – I try all the time in the institution

Mentre scrivo questo post, sto ascoltando una persona ricoverata in psichiatria discutere con la dottoressa: il paziente chiede di essere aiutato a prendere in affitto una mansarda su cui attivare un servizio domiciliare di educatorə e infermierə, mentre la dottoressa gli comunica che passerà prima da una villa (i grandi ricoveri che hanno sostituito i manicomi). Il dialogo avviene più o meno così:

Paziente: ma se vado in villa mi toglieranno il telefonino e mi sentirò solo. Ho paura che rimanendo senza contatti andrò in paranoia.

Dottoressa: se glielo tolgono, è perché c’è un motivo che lei non sa.

Chi frequenta il sistema sanitario conosce le modalità più evidenti di istituzionalizzazione che hanno sostituito la violenza dei manicomi dopo la riforma Basaglia: dosaggi farmacologici che rendono le persone simili nella postura e nella camminata “zombesca”, rallentate nell’eloquio e nei movimenti; servizi in cui ancora si lega ai letti o in cui gli internati devono avere il permesso del medico per uscire a prendere un caffè ecc ecc. Queste pratiche derivano sì da un’organizzazione del welfare estremamente medico-centrica e incurante dei diritti individuali, ma sono anche l’attuazione concreta di un’istituzionalizzazione invisibile – e quindi più subdola – che definisco relazionale.

La dottoressa descritta sopra agisce il proprio potere in due modi:

  • Decidendo del destino della persona senza ascoltare la sua opinione in merito
  • Impostando la relazione e il dialogo con il paziente in modo da impedirgli di sviluppare una volontà capace di rompere le sbarre dell’istituzione.

Voglio concentrarmi su quest’ultima modalità, che spesso noi operatorə del sociale attuiamo inconsapevolmente. La dottoressa dice: “se le tolgono il telefono, è per un motivo che lei non sa”: con pochissime parole, sta affermando che la persona non ha il diritto di decidere come e quanto usare il proprio cellulare; che la persona non è in grado di decidere come e quanto usare il proprio cellulare; che la persona deve delegare la gestione del proprio telefono a qualcuno che non ha scelto lei; quindi che la persona non possiede le competenze per scegliere come vivere e che queste competenze appartengono solo a non-si-sa-chi. Oltre a privare l’interlocutore dei propri diritti, la frase della dottoressa lo priva di qualsiasi possibilità di parola sulla propria vita e dell’autostima necessaria per prendere decisioni su di sé. I soggetti che vengono affermati da questo dialogo non sono più una persona in ruolo di medico e una in ruolo di paziente, ma un dio (non-si-sa-chi) onnisciente e onnipotente dinnanzi a un individuo che può scegliere se credere ed essere salvato, oppure ribellarsi e patire la conseguente punizione.

Subito dopo la chiusura della conversazione che ho riportato, la dottoressa ne apre un’altra con un uomo che è spesso polemico con la gestione del servizio: costui a volte alza la voce e si lamenta del fatto che il proprio letto è posizionato in corridoio e non in una camera, che non prende luce, che non ci sono attività destinate alla riabilitazione e alla ricreazione dei pazienti. A volte urla anche accuse paranoiche su deodoranti rubati, fino a quando non li ritrova. Tuttə lo sentono, perché il suo letto è davvero in corridoio, senza armadio o possibilità di privacy. A questa persona la dottoressa dice: “ti ricordi quando ti ho visto al supermercato qualche tempo fa? Eri adeguato. Questo significa che sai come ci si deve comportare”. Come quasi sempre avviene nei servizi sanitari italiani, in questa affermazione la richiesta viene scambiata per follia. Come se fosse una “roba da mattə” la voglia di avere uno spazio personale dove prendersi realmente cura di sé.

L’adeguatezza di cui parla la dottoressa è troppo spesso l’obiettivo dei progetti e dell’agire educativo. A fine turno, quando si deve scrivere come sono stati glə utentə nelle ultime ore, di solito si sintetizza con un “adeguatə”. Cosa significa? Che la persona ha aderito alle regole sociali e alle norme del servizio. Il problema è che le regole sociali sono anche quelle che governano e organizzano l’ingiustizia, che stigmatizzano le neurodivergenze, che silenziano le proteste e patologizzano le identità. Nel servizio in cui lavoro, per esempio, si è adeguatə quando si rispettano le regole di genere: se una persona non binaria che usa pronomi neutri e maschili (lui li usa, glə educatori no) si mette una gonna, riceve i complimenti da tutta l’équipe. “Come sei bella”, “finalmente usi quello che hai nell’armadio”, “ma guarda come stai bene in abiti femminili”. L’esplosione di malessere e morte interiore che queste frasi provocano in chi le riceve si può percepire a chilometri di distanza. Ma in quel momento glə educatorə non vedono l’ingiustizia in corso, non si accorgono di stare calpestando l’autodeterminazione di un individuo, non comprendono neanche perché quella persona manifesti un malessere: vedono solo adeguatezza, e con l’adeguatezza la guarigione.

Credo che i processi che ho descritto non siano quasi mai attuati consapevolmente: i professionist* coinvolt* nelle dinamiche sopra son davvero convint* di compiere il bene. Come me, come noi.

Riversiamo in quel potere le frustrazioni che non abbiamo la forza di vivere, l’ansia di non essere abbastanza, la stanchezza di turni eterni. Diventiamo così istituzione: siamo noi le sbarre alle finestre e intorno alla persona, i lacci intorno ai polsi e l’umiliazione; siamo profetə di religioni malsane e legislatorə non elettə; siamo noi le regole sociali soffocanti, perché noi le produciamo giorno dopo giorno con le nostre parole e i nostri gesti.

Lavorare in ambito sociale significa rinunciare in ogni istante al proprio potere: analizzare le parole prima di pronunciarle; imparare a non dare per scontate le norme che ci hanno cresciutə; farsi più piccolə per dare all’altrə lo spazio per definirsi; stare zittə ogni tanto, e ascoltare.

E poi tornare a casa con la consapevolezza che abbiamo fatto una piccola parte, abbiamo consolato quella creatura distrutta dai complimenti sulla gonna, e che questa piccola parte potrà forse costituire un breve appiglio per affrontare le ingiustizie. Ma non sarà mai abbastanza.

Non rimane che accendere la macchina e riempire le casse dei 4NonBlondes: and I try  – o my god do I try – I try all the time, in the institution.

And I pray – o my god do I pray – I pray every single day, for a revolution.

A tutte le educatrici militanti

Quando Social Frogs ha annunciato l’addio al lavoro sociale, ero in autobus e mi stavo spostando da una casa all’altra, nel mezzo del lavoro educativo domiciliare che dovrebbe contrastare l’istituzionalizzazione – evitando l’inserimento in strutture comunitarie di bambinə e ragazzə – e invece opprime noi, con ritmi insostenibili, e le persone di cui ci occupiamo, se diventiamo semplici, e complici, controllor* inviate dall’alto. Ho letto il post di Social Frog, e dietro ai miei occhiali da sole ho iniziato a piangere. E’ necessario che la nostra fatica venga condivisa, perché siamo tant e non dobbiamo più sentirci sole. Come in una staffetta, spero di poter proseguire per un pezzettino quello che qualcun’altra ha iniziato.

Siamo operaie frammentate: il lavoro sociale ed educativo è faticoso, marginale, sottopagato, appaltato, esternalizzato, rimbalzato alle agenzie interinali e svilito dalle cooperative sociali. Il lavoro sociale ed educativo è necessario, ma siamo davanti a una scelta. Possiamo proseguire la missione neoliberista, e contribuire a tenere in gabbia chi disturba: famiglie povere, genitori fragili, bambin* “difficili”, persone migranti, persone con disabilità, con neurodivergenze o che affrontano la propria salute mentale, anzianə solə, accomunate tutt3 dal non essere utili ad alcun profitto ma anzi dal comportare un costo per la società. Oppure possiamo condividere e ribellarci. Ogni giorno ci avviciniamo a chi abita i margini, incontriamo chi si imbriglia nella rete dell’assistenza cercando supporto e trovando giudizio e controllo. La rete, teoricamente concetto fondamentale per il supporto alle persone in situazioni di vulnerabilità, diventa una finta in cui i diversi servizi sociali, educativi, sanitari e assistenziali non comunicano tra loro, non considerano le persone nella loro complessità né tutte le cause strutturali dell’emarginazione sociale, ma erogano prestazioni e ci mandano in prima in linea, e disarmate, ringraziandoci per una supposta “vocazione”. In questa rete, le educatrici e gli educatori, le operatrici sociali, le animatrici – e qualunque altra denominazione incaselli il nostro lavoro a sostegno delle persone rese fragili da una società ingiusta – sono le ultime della fila e allo stesso tempo in prima linea. Ai margini, perché operano con paghe da fame e un’organizzazione inaccettabile, e le prime, perché costruiscono relazioni quotidiane in una società che accusa chi resta indietro di scarsa capacità e di scarsa “resilienza”, negando i problemi strutturali che portano “gli utenti” a essere e rimanere “utenti”.
La nostra fatica va condivisa, per evitare che la frustrazione diventi un problema individuale da affrontare in supervisione, etichettandoci come educatrici incapaci di reggere allo stress che il nostro lavoro, alle condizioni attuali, inevitabilmente comporta. A tutt3 noi, ora che inizia un nuovo anno di sfruttamento – settembre più che gennaio ci obbliga a fare i conti con le scadenze e le apparenze, siano progetti, mail da inviare, o iscrizioni in palestra – a tutt3 noi: non siamo solə, e questa rabbia è vitale.
Attorno a noi si diffondono proposte di pedagogiste che offrono percorsi di consueling per trovare la propria strada “imprenditoriale” come professionist* del welfare, per capire come uscire dalla miseria e dalla fatica del lavoro educativo, per analizzare il gap tra ciò che ci aspettavamo e ciò che abbiamo trovato e mostrarci nuove vie di sopravvivenza. Questi percorsi non sono gratuiti, e pur capendo la buona fede di chi li propone dobbiamo dirci quanto siano contraddittori. La nostra fatica esiste, tanto che il mercato ci intercetta e propone percorsi per la cura di chi si prende cura. Non può bastare. Come per le difficoltà delle persone che incontriamo, i nostri problemi sono politici e collettivi e prima di chiederci dove abbiamo sbagliato (la laurea? il master? la cooperativa? il settore di lavoro? quel trauma irrisolto?) dovremmo assicurarci che le condizioni in cui veniamo messɜ siano eque e dignitose. Non lo sono, e alla rete dei servizi, che ci blocca e svilisce, possiamo opporre nuovi reti collettive.
Grazie a Social Frogs per aver iniziato la tessitura.
Educatrice militante

ADDIO, LAVORO SOCIALE

“Ora cercherò un amico / Un lavoro / Poi, non lo so / Una casa, / Il decoro. / E poi ho visto solo mare mare mare tanto mare / Solo acqua, tanta, nei polmoni / Che fa male e non riesci a respirare; / Che ti chiedi i pesci come fanno, / Ma non lo diranno mai, / Lo sai. […] / Giù da questo scoglio, / Giù nel mare in verticale, / Giù e poi nuotare, / Non c’è altro da fare, / Senza bestemmiare, / Zitto e non fiatare, / Tanto l’anima non conta.”

(The Zen Circus, L’anima non conta)

Nelle ultime settimane ho ascoltato questa canzone centinaia di volte. Non capivo neanche io perché ce l’avessi sempre in testa, perché appena finiva schiacciassi il pulsante per farla ripartire. Poi, un giorno, qualcosa dentro me ha fatto un click, e mi ha detto: la mia anima conta. In quel momento, ho deciso che avrei lasciato il lavoro sociale.

Ho scelto di fare l’educatrice con gioia e consapevolezza: sapevo che avrei subito molto sfruttamento, ma ero prontx a lottare.

E ho lottato, a lungo.

Per sette anni ho usato il mio corpo, il mio pensiero e le mie azioni per proteggere le persone con cui lavoravo dalla violenza istituzionale dei servizi socio-sanitari.

Ho scelto di non rispettare regole imposte da psichiatri che confondevano l’abuso di potere con una comoda idea di terapia:

<Irene, mi fai uscire?>

<Palmina, la psichiatra non vuole, cos’hai fatto?>

<Ma niente, ho solo chiesto troppe sigarette>

<Ok, esci. Ma la psichiatra arriva tra 15 minuti, torna in tempo altrimenti mi fa il c*lo.>

E dopo 14 minuti, Palmina suonava il campanello, non per ubbidienza, ma perché sapeva di aver fatto un patto con me, che mi ribellavo al dominio di chi pensa di poter davvero proibire alle persone di passeggiare.

Ho scelto di portare da mangiare e da bere a una persona che i colleghi avevano sedato così tanto che non riusciva ad alzarsi dal letto. Secondo l’équipe, avrebbe dovuto trovare la forza di volontà per pranzare in sala mensa, mentre secondo me era prioritario che non morisse di disidratazione e accumulo di farmaci.

Ho litigato in riunione affinché si rispettasse l’identità di genere non conforme di chi frequentava il servizio.

Ho tenuto le mani di una donna così angosciata che quando tornavo a casa avevo i segni delle sue unghie sui polsi.

Ho tenuto le mani ad adolescenti che non riuscivano a mangiare.

Ho parlato a bassavoce a chi non dormiva.

Ho ascoltato storie di vita di famiglie perdute, di padri violenti, racconti deliranti e racconti un po’ strambi.

Ho abbracciato una marea di persone, e con qualcuna di esse ho anche pianto.

Ho subito un anno e mezzo di mobbing per aver parlato apertamente delle molestie verbali perpetrate da un collega. In quel periodo mi sono ammalatx, fisicamente e psicologicamente: ho passato una notte in ospedale e sono dovutx entrare in terapia. In quel periodo ho bevuto troppo e troppo a lungo, per dimenticare ciò che i miei capi mi facevano vivere a lavoro.

Ne sono uscitx, con le mie forze e il sostegno delle persone che mi vogliono bene.

Ho contribuito a fondare un’assemblea, la Rete del Lavoro Sociale, che rivendica i diritti che noi educatrici non abbiamo.

Ho aperto un blog, questo su cui sto scrivendo,  di denuncia delle dinamiche oppressive messe in atto dai servizi socio-sanitari ed educativi.

Ho visto ragazzə liberarsi da malattie e da paure. Sono rimastx accanto a ragazzə che non riuscivano a liberarsene.

Abbiamo riempito un muro di disegni, e quando il capo ce li ha fatti togliere, li abbiamo appesi con dei fili.

Mi sono dimessx 3 volte.

Ho cambiato cooperativa 7 volte.

Ho iniziato a fumare per sopportare lo stress di turni troppo lunghi e di frustrazioni troppo pesanti.

Il lavoro educativo è quello meno pagato in Italia, tra le professioni che richiedono una laurea. 

Il Contratto Nazionale delle Cooperative Sociali, ossia il pezzo di carta che regola le nostre assunzioni, prevede cose illegali, come le notti passive, per cui ci viene chiesto di passare la notte in servizio ricevendo solo un rimborso spese di 5 euro. Alle notti passive è anche possibile agganciare dei turni diurni, quindi a volte ci capita di lavorare per 17 ore di fila.

Il sistema degli appalti, per cui il pubblico delega alle cooperative sociali, ossia ad aziende private, la gestione dei servizi educativi e socio-sanitari, fa sì che si giochi al ribasso per vincere le gare. E il ribasso siamo noi. Gli Enti Locali chiedono prestazioni economiche, le cooperative anziché rifiutare queste condizioni le accettano passivamente e presentano progetti che siano appetibili economicamente. Nella pratica, tagliano i nostri stipendi, non risarcendo i nostri spostamenti in macchina, non pagandoci quando l’utente è assente, sfruttando il sistema della banca ore per farci lavorare gratis e non retribuire gli straordinari.

La colpa è anche nostra, che stiamo in silenzio. Se ogni professionista del welfare si informasse e richiedesse ciò che gli spetta, le cooperative sarebbero costrette a rifiutare le gare d’appalto giocate al ribasso, gli Enti Locali dovrebbero stanziare più soldi per il welfare, e via dicendo.

La colpa è anche nostra, ma conosco la fatica che porta al silenzio. So quanto lo sfruttamento possa logorare la mente e il corpo, generando un burn out che non può essere curato, perché i nostri stipendi non ci permettono di pagare la psicologa o di fare sport.

Se ho deciso di lasciare il lavoro sociale, quindi, non è per responsabilità delle persone utenti con/per cui ho lavorato in questi sette anni. Lo stress, per noi professionistɜ del welfare, non arriva da chi ha un disagio psichico, fisico o sociale, ma da come esso viene gestito all’interno delle istituzioni.

Le mie spalle sono stanche, perché hanno sollevato scudi e lance con cui ho dovuto combattere, quotidianamente, affinché il mio lavoro portasse liberazione e non oppressione. È questa la grande contraddizione della professione educativa, almeno in Italia: che lavorando con il dialogo e la relazione, dovremmo creare libertà e diritti; invece, ci viene richiesto di portare chiusura, silenzio e repressione.

Restare in questa contraddizione, trovandone le pieghe e gli interstizi in cui costruire qualcosa di positivo ed emancipatorio, è stata l’esperienza più appassionante della mia vita.

Ho amato il lavoro educativo profondamente. 

Ora sento che è giunto il momento di dichiarare il mio fallimento: sapevo fin dall’inizio che avrei perso la lotta contro le ingiustizie del welfare. Ora è il momento di compiere l’ultimo intervento educativo, e mostrare con le mie azioni che prendersi cura di sé è un diritto.

La mia anima conta, le vostre anime contano.

Continuate, o iniziate, a rivendicare i diritti che vi spettano. Ribellatevi a istituzioni che dovrebbero curare e invece schiacciano. Create, con il vostro pensiero e le vostre azioni, lo spazio che vi è necessario per esistere a pieno.

Esistete!

Resistete!

Io continuerò a lottare insieme a voi, in assemblea e fuori, per un welfare pubblico e sostenibile.

Grazie, per questi 7 anni, a chi ha lottato insieme a me.

Fanculo a chi ha scelto di stare dalla parte dell’oppressione.

______________

“Tu libera e felice vai, / Mi ritrovi dove sai”.

L’educatrice indisciplinata (cit), Irene

Sulle coccole nei servizi educativi. O: di come ti ribaltiamo il welfare abbracciandoci

di I. Per chi vive il feudo libero.

Oggi, 25 ottobre 2022, ho indossato la felpa rosa con su scritto “protect trans kids”, mi sono concentrata sul respiro e ho varcato la soglia del centro diurno. Era il primo giorno dopo due settimane di ferie e ad attendermi c’erano otto braccia e mille commenti tipo “che ciuffo orribile hai oggi”, che nel linguaggio della nostra relazione educativa significa: “mi sei mancata, ti voglio bene”. Per una mezz’ora ho ascoltato i riassunti dei gossip: una cucina piena di adolescenza che aspetta il proprio turno per dire con chi si sta frequentando, quante cose non sai che mi sono successe in queste due settimane, stasera ho un appuntamento, mi sento molto meglio e sto riuscendo a mangiare. Uno sguardo obliquo alla mia collega e compagna e ci siamo radunat* in sala di disegno. Non è difficile chiamare in riunione una decina di adolescenti, quando per mesi si è lavorato per dare loro la possibilità di esprimere la propria opinione, per convincerl* dell’importanza del loro pensiero, per trasmettere il diritto al dissenso anche verso noi educatrici. I muri della sala sono coperti di disegni di cervelli aperti e sofferenti, identità di genere non conformi messe su carta, brain storming sul corpo, sull’Antigone, sulle emozioni. Sono i muri su cui abbiamo scelto di lavorare insieme, stabilendo un’alleanza tra educatrici e utenti di cui nessuno parla ai capi, perché siamo il centro diurno ribelle, le carbonare. Dopo avere studiato il feudalesimo per preparare una verifica abbiamo dichiarato il nostro servizio un feudo libero. Ma lo si dice sottovoce, collega a collega, mentre una vocina dall’altra stanza chiama “educatrice indisciplinata, vieni a interrogarmi”. Perché questa decina di adolescenti forse lo sa, quanta creatività e fatica abbiamo impiegato per proteggere con i nostri corpi e la nostra professionalità le loro soggettività dall’appiattimento che la società vorrebbe. Come i nemici di Dostoevskij, vorrebbero livellare le montagne e le differenze, mentre noi – nel nostro feudo libero – diciamo: siamo montagne, lottiamo per esserlo.

Ascolto il respiro, mentre la solita vocina si siede per terra lamentandosi perché non le ho lasciato la sedia e dissertando sulla necessità che le educatrici restino in piedi, se proprio vogliono fare una riunione. I capi hanno deciso, cambio servizio. 10 lunghissimi secondi di silenzio. Dal pavimento, un “ma che cazzo” e dei singhiozzi. Oggi avremmo dovuto fare attività sulle emozioni, invece ci siamo abbracciat* per ore. Oggi avremmo dovuto fare un’attività strutturata, invece – ancora una volta – abbiamo deistituzionalizzato e ci siamo lasciat* attraversare dalla tristezza. 

Siamo professionist* e siamo corpi. Quante volte ci siamo dimess* perché non reggevamo fisicamente i turni in comunità o le territoriali di inverno. Siamo corpi che vivono lo stress, la fatica, la malnutrizione quando non ci pagano per mesi. E siamo anche corpi che abbracciano. Nel nostro feudo libero, ci siamo sempre fatt* tante coccole. Abbiamo anche fatto dei picnic, decidendo di saltare scuola per andare a parlare della vita dopo aver steso una coperta sul prato. “A., è più importante la salute mentale o la scuola?” “La salute mentale, Ire”; “A., a scuola ti insegnano a stare bene?” “No, Ire. Ma tu non dovresti dirmi che devo provare ad andare a scuola?” “No, A., perché stai soffrendo troppo. Ti puoi fermare.” – e giù di abbracci.

Quando ci dicono che svolgiamo un lavoro di cura, noi Social Frogs ci arrabbiamo. Perché con questa storia della cura hanno sminuito e sfruttato la nostra professione. Ed è vero che non è cura. Oggi, mentre abbraccio delle piccole teste singhiozzanti, mi sento montagna. Sento la crescita comune – e non la cura – passare attraverso i nostri corpi intrecciati, corpi offesi e martoriati che si appoggiano alla mia spalla, che bagnano la mia felpa rosa.

Sento che ho la forza per farvi appoggiare, piccolezze. Siamo cresciut* insieme – è questa la mia professione. I miei piedi sono radicati a terra, sono la montagna che può sostenervi, mentre sussurro all’orecchio di A.: “guarda che non sparisco”.

Fumo una sigaretta con P. Per mesi non ho fumato perché l* adolescenti me lo impedivano e io lasciavo che si prendessero cura di me. Oggi mi hanno dato il permesso.

Mi tolgo la felpa e la butto sul letto.

Poi, d’improvviso, smetto di essere montagna. E piango anche io.

Mi mancherete, piccol* ribell*.

. la vostra educatrice indisciplinata

PAZIENTE X

di GBB

Sono seduta sul mio letto, come sottofondo la canzone “a mano a mano” di Gaetano. La porta della mia camera è spalancata e vedo i “matti” fare avanti e indietro nel corridoio senza uno scopo preciso. Alcuni ci chiamano pazzi, squilibrati, ci chiamano paziente x. Gli infermieri passano, ci danno la terapia e se ne vanno. Quando ci sei dentro però, inizi a scoprire che ognuno di noi ha una storia, una storia che non interessa più di tanto al sistema sanitario. Ho conosciuto E., un paziente con un disturbo bipolare, come me. Ama la musica. Poi c’è M., che lavorava qui in ospedale, non so cosa sia successo, ma è incazzato con la vita. Poi c’è P., che si dimentica ogni volta come mi chiamo, ho perso il conto delle volte in cui mi ha chiesto il mio nome. Certe volte mi chiama G***a, ma non è questo il punto. Cerca di dimostrarmi che mi vuole bene. Nella stanza con me c’è I.. Lei ha paura. Ha dormito su una sedia in corridoio tutta la notte. Insomma, tutti qua, con la nostra diagnosi, veniamo ritenuti come un gruppo esterno alla società, proprio perché la follia viene vista come qualcosa che spaventa. Vorrei ribaltare le cose. Noi “matti” proviamo le stesse emozioni che provano tutti, forse solo più amplificate. La nostra follia, se gestita bene, possiamo trasformarla in qualcosa di incredibile. E come si impara a gestirla? Di certo non sedandoci e lasciandoci su un letto, cosa che viene fatta perché costa molto meno di una psicoterapia, costa meno sedarci piuttosto che far partire nuovi progetti grazie ai quali possiamo imparare a vivere nonostante la malattia mentale, in cui possiamo renderci conto che noi non siamo la nostra malattia, siamo semplicemente persone che forse hanno provato a dare un senso alla vita, ed è in quell’esatto momento che vieni definito pazzo, quel momento in cui cerchi un senso a tutto questo e non riesci a trovarlo.

CANTO NOTTURNO DI UN’EDUCATRICE ERRANTE PER L’ITALIA. Con derive marxiane.

di I

Quelli dell’Albo si scannano, istituiscono un potere, definiscono una professione, poi litigano per quel potere, dimenticano la deistituzionalizzazione. Non ho fatto in tempo a pensare: l’educazione è una pratica interdisciplinare, che i confini si sono stretti, hanno eretto muri che ci isolano e dividono, costringendoci a giurare che “l’Ordine siamo noi”.

Intanto mi pago il treno con un decimo del mio stipendio, ci salgo sopra pensando: come farò a sopravvivere? Che fai tu luna in ciel e come farò a pagare il meccanico, la psicologa, il riscaldamento? Che fai tu luna in ciel e come farò a dire alle ragazze che me ne vado, perché questo treno costa troppo e non mi danno i contatti delle vostre psichiatre, non posso fare lavoro di rete – e neanche lavoro d’équipe, perché per la seconda volta in due anni vengo discriminatx per il mio orientamento sessuale? Che fai tu luna in ciel, e come farò a cambiare lavoro, rinunciare a questa passione, trovare qualcos’altro che so fare – e chi me lo paga intanto l’affitto? Dimmi, che fai, se una quindicenne ti racconta una violenza e devi armarti come cavaliere (per fortuna cavaliere ci sei natx) per difenderla in équipe dalle illazioni delle colleghe che non le credono e quando le convinci l’unica cosa che puoi offrire a questa bimba è di fare un’attività, andiamo a fare una gita, perché anche se avessi i contatti delle psichiatre, quelle vedono la vita come patologia?

Dimmi, o luna: a che vale all’Albo la mia vita, la nostra vita di dimissionarie incallite?

Forse sono io, o forse è Marx a dire: non dobbiamo dimenticarci della vita, della fatica di queste lavoratrici. Si lavora, si discute, si amministra l’Albo e intanto noi soccombiamo sotto la frustrazione, il mobbing, gli psichiatri e i boomers. Mentre l’Ordine continuate a esserlo voi, noi ci stanchiamo, ritagliamo a fatica spazi di una vita sociale incattivita dal nostro stress, sviluppiamo sintomi di un disturbo dell’attenzione dato dall’impossibilità di staccare, di contemplare un libro, la montagna, la luna.

Forse i tavoli non dovremmo crearli, ma rovesciarli. Forse dovremmo prendere a martellate i muri e unirci, per dare il cambio a chi non ha le forze per continuare la lotta, per ascoltarci, abbracciarci, scioperare. Forse dovremmo andarcene a creare nuovi spazi lavorativi, forse dovremmo mummificare le cooperative, farci marea contro l’oppressione.

Forse sono io, o forse sono i Basaglia a dire: non ha senso lottare per il proprio giardino di rivendicazione senza coinvolgere le persone oppresse con cui lavoriamo. I nostri diritti di lavoratrici si intrecciano con quelli delle ragazze, di chi è senza casa, di chi ha allucinazioni cui nessuno crede, di chi è sottoposto al volere di un tutore scelto dalla famiglia, di chi non cammina senza appoggio, di chi non capisce Freud. Cosa sono le nostre lotte nelle istituzioni, se non comprendono coloro che l’istituzione la vivono?

Intatta luna, tale /è lo stato mortale. /Ma tu mortal non sei, /e forse del mio dir poco ti cale.

S’avess’io l’ale da volare Altrove, aprirei le porte di un bosco per risolvere nell’anarchia lo sfruttamento, l’oppressione, l’istituzione. 

Per esser’io l’ale, devo smettere di essere riflesso, farmi concretezza.

Perché forse non è un caso, che siamo disgregatə come professione che lavora nella frammentazione sociale. Siamo lo specchio di quelle che la psichiatria chiama patologie, e io vita. Finché cercheremo di scalare l’Albo e le ASL per trovare spazi di voce senza coinvolgere chi voce non ha; finché imposteremo una lotta dimentica di quelle altre, continueremo a perderci, a riflettere dolore, a incorporare dolore e solitudine.

Rovesciamo i tavoli, creiamo luoghi aperti di dialogo, impariamo ad ascoltare, dimentichiamo l’impostazione aziendale e pratichiamo una forma di liberazione comune.

Che cos’è l’educazione senza lotta per la libertà?

Il paradosso della cura

di M

Da qualche tempo ho una domanda che mi frulla in testa, che rivolgo alle persone con cui condivido parte della mia quotidianità e su cui torno ripetutamente nei miei appunti sparsi qua e là tra quaderni, note del telefono e pagine di Word abbandonate. La domanda, formulata di volta in volta in maniera diversa, suona più o meno così: come aiuto l’altrx (l’“utente del servizio”, creatura con cui passo gran parte della mia giornata) a imparare a prendersi cura delle proprie emozioni se io non posso strutturalmenteprendermi cura delle mie?

Ma potrebbe suonare anche così: come posso avere come obiettivo professionale il benessere delle persone se il lavoro educativo stesso non permette a me di stare bene? Sarebbe alquanto strano e criticabile se, poniamo caso, unx gastroenterologx non avesse la possibilità strutturale di curare il proprio intestino, pur conoscendone le patologie e i rischi. Eppure è evidente – ce lo dicono i nostri contratti, i nostri datori di lavoro e le richieste operative che ci vengono fatte – che per noi, operatrici delle emozioni, non è prioritario.

Quantx di noi hanno sperimentato la difficoltà a prenotare e effettuare delle visite mediche perché gli orari di lavoro cambiano continuamente, i turni sono imprevedibili e chiedere un permesso è come chiedere un enorme favore? Quante e quanti di noi si sono trovate in difficoltà con la richiesta dei “permessi studio”? Quelle ore mitologiche che spetterebbero a chi decide di continuare la propria formazione; persone, come me, evidentemente ingenue che non sanno che il cosiddetto lifelong learning è un termine vuoto di senso, buttato qua e là tra curriculum, requisiti e condizioni. Quante di noi avrebbero avuto, o hanno, bisogno di un supporto psicologico o pedagogico per rielaborare alcuni vissuti, racconti che fanno vibrare corde interne o semplicemente accadimenti complessi e densi, supporto che non è garantito o lo è in maniera assolutamente non adeguata, rimanendo a carico personale. E lascio a chi mi sta leggendo la possibilità di continuare questa lista incompleta, per non dare troppa corda alla mia predisposizione alla lamentela.

Così navighiamo a vista nella tempesta di impegni che si accumulano e a cui non riusciamo a dare una data che sia fissata nel tempo in modo certo, rimproverandoci di non riuscire a ritagliarci il giusto spazio vitale ma senza che effettivamente questo dipenda da noi.

Il fatto che lavorare con le persone equivalga a rinunciare a sé stesse non è scritto in nessun volume di pedagogia, in nessun codice deontologico e in nessuna “mission” educativa. Ugualmente rimane insito nella struttura del nostro lavoro, diventando quasi una beffa, se non una delle cause principali del fenomeno noto come burn out”.

Perché, diciamocelo, sicuramente lavorare a stretto contatto con certe forme di malessere è stressante, prosciuga le energie e via dicendo, ma ci sarebbero davvero così tantx operatrici “bruciatx” – perdonate la traduzione letterale ma a mio parere rende molto di più – se le condizioni fossero migliori? Perché se essere spedita – sì, esattamente come un pacco – in ospedale da una persona che ha tentato il suicidio qualche giorno prima è di per sé una situazione di difficile gestione emotiva, lo è ancora di più se la comunicazione avviene poco prima dell’inizio del turno e lo è ancora di più se dopo non viene concesso uno spazio di rielaborazione ma si viene gettati da un’altra parte e così via, giorno dopo giorno, di settimana in settimana.

Così, di una sfilza di neolaureate cariche di iniziativa e piene di voglia di sperimentarsi e mettersi in gioco nel campo professionale scelto – e per il quale si sono dedicati anni di studio, soldi, tempo e tirocini ovviamente non pagati – rimangono gusci di persone stanche che, a furia di dare e dare e far fatica a pagarsi vitto e alloggio, mollano.

E qui ritorno alla domanda iniziale, in un piccolo cerchio che si chiude: come posso avere come obiettivo professionale il benessere delle persone se il lavoro educativo stesso non permette a me di stare bene?

Il paradosso della cura.

Sull’autodeterminazione delle persone minorenni nei servizi socio-sanitari

Di I

Leggere Basaglia a volte dà alla testa e fa sì che arrivi a lavoro con ideali bizzarri e speranze mal fondate. Capita quindi di intervenire nel dialogo di due adolescenti che raccontano di come in reparto psichiatrico il personale medico si rifiuti di rendere noto alle persone minorenni ricoverate quale terapia stiano assumendo. “Ma è vostro diritto saperlo”, affermo con deistituzionalizzante sicurezza; “ma non ce lo dicono” mi rispondono, disillusione fredda negli occhi.

Nel corso della mia carriera da educatrice ho lavorato in psichiatria adult3, nell’ambito delle tossicodipendenze e con persone con disabilità: ogni volta che iniziavo un nuovo lavoro, mi sembrava che le persone che avevo davanti fossero le più calpestate nelle proprie individualità e nei propri diritti. In psichiatria adult3 si è rinchius3 in comunità sempre più asettiche e ospedaliere; il Gruppo Ab*le, egemone torinese del lavoro con le persone tossicodipendenti, è solo un gradino più su di San Patrignano: ho visto somministrare dosi farmacologiche tanto elevate da costringere persone malnutrite a letto per settimane, per poi accusarle di non avere abbastanza forza di volontà per pranzare con il gruppo. Le persone con disabilità intellettiva, invece, non sono neanche arrivate a essere manifestamente oppresse: sono da sempre ignorate dalla società e hanno sviluppato autostime così basse che si adattano a condurre le vite proposte dai servizi, attuando una semplicità di pensiero non congenita, ma incorporata secondo le categorie capitalistiche.

Le persone minorenni che giungono ai servizi psichiatrici, d’altro canto, stanno vivendo in pieno la costrizione sociale e istituzionale che agisce sulle menti e sui corpi: un esempio paradigmatico è quello di chi sviluppa la fobia scolare. La paura di andare a scuola si manifesta con ansia, attacchi di panico, depressione e viene trattata dal personale terapeutico (noi) come se fosse piovuta dal cielo, come se l’adolescente l’avesse contratta per caso insieme al morbillo; invece la fobia scolare esplode quasi sempre dopo anni di bullismo da parte de3 coetane3 o de* insegnant3, che urlano, umiliano, ignorano sintomi di malessere o li espongono al ludibrio della classe (dovremmo chiederci perché a essere in cura sono 3 ragazz3 e non il corpo docenti). 

La fobia scolare, dunque, è l’emblema di come il disagio psichico in generale sia spesso il risultato di un mancato adattamento alla norma capitalista ed eterosessuale, l’ultima richiesta d’aiuto di creature che non rientrano nella definizione dellə studente produttivə, ma che non hanno gli strumenti pratici e intellettuali per resistere. E in questo sostrato di oppressione diffusa e sistemica, di continui tentativi di normalizzazione delle creature minorenni, queste ultime non hanno alcun potere decisionale: quando esplode il malessere, esse vengono prese in carico dal sistema sanitario, lo stesso che non condivide con loro quali farmaci stiano assumendo. I servizi socio-sanitari si occupano principalmente di insegnare all’adolescente come vivere nel mondo in maniera educata e produttiva: viene dato per scontato che l’individuo minorenne debba affidarsi a psichiatrə psicologə ed educatrici in modo incondizionato, privandolo pian piano della capacità di interrogarsi sul proprio volere. Così come la fobia scolare causata dal corpo docenti viene demandata interamente al* minore, consideratə per diagnosi l’unicə responsabile del proprio disagio, si insegna a3 ragazz3 che non ci sono motivazioni esterne alla loro individualità per la loro depressione, la loro disforia di genere, i loro pensieri anticonservativi. Continuamente, goccia dopo goccia, si passa loro il messaggio che è normale che gl3 insegnant3 l3 umilino, è normale soffrire se si è transgender – non è affatto colpa di un sistema che ti chiama con il deadname perché i tuo* genitori non ti danno il permesso di cambiarlo – mentre non è normale cadere in depressione e non vedere prospettive di futuro in un mondo che sta finendo le risorse naturali. Trattiamo gl3 adolescenti come se avessero tutta la responsabilità del proprio malessere, quando il loro malessere non è altro che l’effetto della distorsione patologica in cui siamo immers3.

Se da un lato le persone minorenni subiscono l’istituzionalizzazione dei servizi, dall’altro il loro potere decisionale viene continuamente calpestato da* genitori o dagl3 adult3 di riferimento: diamo sempre per scontato che prima dei diciott’anni non si possa scegliere dove e come vivere, con quale nome presentarsi al mondo, come collocarsi rispetto all’attualità delle questioni sociali. Per esempio, alcun3 ragazz3 vedono la propria vita sociale annullata a causa dei genitori no-greenpass, che hanno il potere di decidere se firmare o no l’autorizzazione al vaccino: sebbene 3 genitori possano avere sviluppato un pensiero politico di cui sono convint3, dovrebbe essere lə minore a scegliere se rinunciare a quei pochi incontri che il governo ancora permette. E di questo passo per ogni cosa. La persona minorenne è il campo di battaglia di un mondo di adult3 che sopravvive riproducendo le dinamiche opprimenti a cui si è arreso e di cui deve continuamente giustificare la bontà e l’esistenza imponendole a chi adultə sta ancora diventando.

In uno dei miei libri d’infanzia preferiti, Stargirl, la protagonista è una ragazza che nel corso della storia cambia nome, adattandolo al proprio percorso di crescita personale; nella nostra realtà, invece, la volontà dell’adolescente di sperimentare nuovi nomi è vista come il sintomo di qualche patologia. Stargirl era libera, si vestiva di bianco, aveva un topo, faceva regali agl3 sconosciut3 e si innamorava di co-protagonisti bellocci. Le Stargirl con cui lavoro sono libere anche loro malgrado, ma per quanto? Le Stargirl con cui lavoro sono ribelli e per ora resistono; ma per quanto?

Educazione e sessualità: una breve riflessione intenzionalmente provocatoria.

di M

Per chi lavora in ambito educativo, soprattutto con certe fasce d’età come l’adolescenza – ma non solo – il tema della sessualità e delle relazioni è pane quotidiano. Spesso mi sono chiesta, in questi anni di esperienza sul campo, come affrontare questi argomenti in una maniera realmente accogliente ed educativa, come predisporsi all’ascolto attivo e allo scambio significativo. Detto semplificando un pochino: come parlare di sesso e affettività con – e vorrei sottolineare “con” ovvero “insieme, che è diverso da “parlare a” – le adolescenti e gli adolescenti? E come farlo in maniera realmente inclusiva? Come rendere giustizia al sapere portato da chi ho davanti? Come sviluppare discorsi sull’importanza della prevenzione e della salute senza terrorizzare e senza tarpare le ali a una possibile sana promiscuità? E come fare tutte queste cose – e molte altre – all’interno di istituzioni e dispositivi (parliamo di scuole, ma anche comunità, centri diurni e via dicendo) che spesso e volentieri ancora tremano al solo sentire la parola “SESSO”?

Tante domande, forse troppe. Ma porsi domande e riflettere, oltre a essere uno degli strumenti più importanti della nostra “cassetta degli attrezzi”, è anche un ottimo modo per poter iniziare un discorso più ampio e approfondito, che possa stimolare nuove pratiche educative e ulteriori nuove riflessioni, in quello che potremmo chiamare un “essere in costante ricerca”.

Un approccio che trovo diffuso è la tendenza a legittimare certe forme di sessualità e relazione rispetto che altre. Mi spiego meglio. Anche laddove non vi siano pregiudizi espliciti nel luogo di lavoro verso orientamenti sessuali e forme relazionali altre rispetto alla coppia monogama ed eterosessuale, aleggia sempre una sorta di “non detto” che porta a prediligere narrazioni di esperienze di quel tipo. Talvolta ho la sensazione – e delle volte, ahimè, non è solo una sensazione ma una vera e propria richiesta calata dall’alto – che raccontarsi in maniera limpida, se non si rientra in un certo schema di “normalità”, sia una cosa sbagliata, da fare di nascosto e sottovoce. Così facendo è come se comunicassimo che va bene non essere etero, va bene essere promiscue, va bene avere più partner, però è meglio non dirlo troppo in giro, soprattutto e ancora di più in quanto educatrice – quindi una creatura casta, docile e dolce, senza perversioni, una sorta di madre-madonna.

Il discorso dominante resta quindi quello del rapporto tra cosiddetti generi opposti”, del sesso valido se romantico, della gelosia come valore aggiunto, del sesso “pulito e profumato, meccanico. Certo, si sono fatti passi da gigante rispetto anche solo a dieci anni fa, ma penso che siamo ancora tanto lontani dal raggiungimento dell’obiettivo minimo.

Mi chiedo spesso quali possano essere le conseguenze di un modello educativo ancora influenzato dalla concezione per cui chi fa sesso occasionale con diverse persone è una “tr0ia”. Che volta le spalle alla ragazza e/o al ragazzo che domandano se è normale provare piacere nell’attuare pratiche che potremmo includere nella categoria del BDSMtutto tratto da una storia vera.

Se noi voltiamo la faccia con malcelato imbarazzo alla promiscuità, le adolescenti e gli adolescenti non smetteranno di avere, o di desiderare di avere, tante e/o tanti partner, avranno però meno possibilità di sentirsi a loro agio nel farlo e nel parlarne; oppure svilupperanno circuiti legati al senso di colpa e al malessere. Piuttosto parliamo loro del consenso, del rispetto verso le persone con cui si intrattengono rapporti occasionali affinché non diventino meri corpi da consumare.

Se additiamo le pratiche sessuali “kinky” e ci rifiutiamo di parlarne con loro o di informarci insieme sui modi in cui farlo in maniera sicura e responsabile, non stiamo facendo loro del bene e, a mio parere, non stiamo operando in maniera educativa. Solo superando la vergogna e il timore di parlare delle perversioni, queste possono essere trattate come quello che sono: preferenze sessuali, forme di curiosità e di scoperta del proprio corpo e delle sensazioni a esso legate.

Se dobbiamo nascondere il fatto che è possibile e legittimo avere relazioni amorose non esclusive o poliamorose, allo stesso modo in cui è legittimo avere relazioni amorose esclusive, stiamo collaborando con la società nell’instillare in loro la “norma”, stiamo oscurando loro un ventaglio di possibilità che esistono e in cui potenzialmente possono trovare una dimensione che le faccia sentire meno inadeguate.

Questi sono solo alcuni esempi tratti dalla mia personale esperienza, ma la lista sarebbe molto, molto e ancora molto più lunga di così.

Io sono convinta che siano necessari dei discorsi seri, complessi e profondi sul tema della sessualità nei contesti di lavoro socio-educativo. E sono convinta che solo sviluppando riflessioni condivise e con un approccio e una postura aperti, inclusivi e volti alla responsabilità si possa arrivare a creare in un futuro spazi lavorativi in cui sia operatrici e operatori che “utenti” possano sentirsi meno giudicate e – forse, ma è solo una speranza – meno sessualizzate, anche se più esplicite e libere nella comunicazione e nell’affermazione di sé.