Il paradosso della cura

di M

Da qualche tempo ho una domanda che mi frulla in testa, che rivolgo alle persone con cui condivido parte della mia quotidianità e su cui torno ripetutamente nei miei appunti sparsi qua e là tra quaderni, note del telefono e pagine di Word abbandonate. La domanda, formulata di volta in volta in maniera diversa, suona più o meno così: come aiuto l’altrx (l’“utente del servizio”, creatura con cui passo gran parte della mia giornata) a imparare a prendersi cura delle proprie emozioni se io non posso strutturalmenteprendermi cura delle mie?

Ma potrebbe suonare anche così: come posso avere come obiettivo professionale il benessere delle persone se il lavoro educativo stesso non permette a me di stare bene? Sarebbe alquanto strano e criticabile se, poniamo caso, unx gastroenterologx non avesse la possibilità strutturale di curare il proprio intestino, pur conoscendone le patologie e i rischi. Eppure è evidente – ce lo dicono i nostri contratti, i nostri datori di lavoro e le richieste operative che ci vengono fatte – che per noi, operatrici delle emozioni, non è prioritario.

Quantx di noi hanno sperimentato la difficoltà a prenotare e effettuare delle visite mediche perché gli orari di lavoro cambiano continuamente, i turni sono imprevedibili e chiedere un permesso è come chiedere un enorme favore? Quante e quanti di noi si sono trovate in difficoltà con la richiesta dei “permessi studio”? Quelle ore mitologiche che spetterebbero a chi decide di continuare la propria formazione; persone, come me, evidentemente ingenue che non sanno che il cosiddetto lifelong learning è un termine vuoto di senso, buttato qua e là tra curriculum, requisiti e condizioni. Quante di noi avrebbero avuto, o hanno, bisogno di un supporto psicologico o pedagogico per rielaborare alcuni vissuti, racconti che fanno vibrare corde interne o semplicemente accadimenti complessi e densi, supporto che non è garantito o lo è in maniera assolutamente non adeguata, rimanendo a carico personale. E lascio a chi mi sta leggendo la possibilità di continuare questa lista incompleta, per non dare troppa corda alla mia predisposizione alla lamentela.

Così navighiamo a vista nella tempesta di impegni che si accumulano e a cui non riusciamo a dare una data che sia fissata nel tempo in modo certo, rimproverandoci di non riuscire a ritagliarci il giusto spazio vitale ma senza che effettivamente questo dipenda da noi.

Il fatto che lavorare con le persone equivalga a rinunciare a sé stesse non è scritto in nessun volume di pedagogia, in nessun codice deontologico e in nessuna “mission” educativa. Ugualmente rimane insito nella struttura del nostro lavoro, diventando quasi una beffa, se non una delle cause principali del fenomeno noto come burn out”.

Perché, diciamocelo, sicuramente lavorare a stretto contatto con certe forme di malessere è stressante, prosciuga le energie e via dicendo, ma ci sarebbero davvero così tantx operatrici “bruciatx” – perdonate la traduzione letterale ma a mio parere rende molto di più – se le condizioni fossero migliori? Perché se essere spedita – sì, esattamente come un pacco – in ospedale da una persona che ha tentato il suicidio qualche giorno prima è di per sé una situazione di difficile gestione emotiva, lo è ancora di più se la comunicazione avviene poco prima dell’inizio del turno e lo è ancora di più se dopo non viene concesso uno spazio di rielaborazione ma si viene gettati da un’altra parte e così via, giorno dopo giorno, di settimana in settimana.

Così, di una sfilza di neolaureate cariche di iniziativa e piene di voglia di sperimentarsi e mettersi in gioco nel campo professionale scelto – e per il quale si sono dedicati anni di studio, soldi, tempo e tirocini ovviamente non pagati – rimangono gusci di persone stanche che, a furia di dare e dare e far fatica a pagarsi vitto e alloggio, mollano.

E qui ritorno alla domanda iniziale, in un piccolo cerchio che si chiude: come posso avere come obiettivo professionale il benessere delle persone se il lavoro educativo stesso non permette a me di stare bene?

Il paradosso della cura.