Sull’autodeterminazione delle persone minorenni nei servizi socio-sanitari

Di I

Leggere Basaglia a volte dà alla testa e fa sì che arrivi a lavoro con ideali bizzarri e speranze mal fondate. Capita quindi di intervenire nel dialogo di due adolescenti che raccontano di come in reparto psichiatrico il personale medico si rifiuti di rendere noto alle persone minorenni ricoverate quale terapia stiano assumendo. “Ma è vostro diritto saperlo”, affermo con deistituzionalizzante sicurezza; “ma non ce lo dicono” mi rispondono, disillusione fredda negli occhi.

Nel corso della mia carriera da educatrice ho lavorato in psichiatria adult3, nell’ambito delle tossicodipendenze e con persone con disabilità: ogni volta che iniziavo un nuovo lavoro, mi sembrava che le persone che avevo davanti fossero le più calpestate nelle proprie individualità e nei propri diritti. In psichiatria adult3 si è rinchius3 in comunità sempre più asettiche e ospedaliere; il Gruppo Ab*le, egemone torinese del lavoro con le persone tossicodipendenti, è solo un gradino più su di San Patrignano: ho visto somministrare dosi farmacologiche tanto elevate da costringere persone malnutrite a letto per settimane, per poi accusarle di non avere abbastanza forza di volontà per pranzare con il gruppo. Le persone con disabilità intellettiva, invece, non sono neanche arrivate a essere manifestamente oppresse: sono da sempre ignorate dalla società e hanno sviluppato autostime così basse che si adattano a condurre le vite proposte dai servizi, attuando una semplicità di pensiero non congenita, ma incorporata secondo le categorie capitalistiche.

Le persone minorenni che giungono ai servizi psichiatrici, d’altro canto, stanno vivendo in pieno la costrizione sociale e istituzionale che agisce sulle menti e sui corpi: un esempio paradigmatico è quello di chi sviluppa la fobia scolare. La paura di andare a scuola si manifesta con ansia, attacchi di panico, depressione e viene trattata dal personale terapeutico (noi) come se fosse piovuta dal cielo, come se l’adolescente l’avesse contratta per caso insieme al morbillo; invece la fobia scolare esplode quasi sempre dopo anni di bullismo da parte de3 coetane3 o de* insegnant3, che urlano, umiliano, ignorano sintomi di malessere o li espongono al ludibrio della classe (dovremmo chiederci perché a essere in cura sono 3 ragazz3 e non il corpo docenti). 

La fobia scolare, dunque, è l’emblema di come il disagio psichico in generale sia spesso il risultato di un mancato adattamento alla norma capitalista ed eterosessuale, l’ultima richiesta d’aiuto di creature che non rientrano nella definizione dellə studente produttivə, ma che non hanno gli strumenti pratici e intellettuali per resistere. E in questo sostrato di oppressione diffusa e sistemica, di continui tentativi di normalizzazione delle creature minorenni, queste ultime non hanno alcun potere decisionale: quando esplode il malessere, esse vengono prese in carico dal sistema sanitario, lo stesso che non condivide con loro quali farmaci stiano assumendo. I servizi socio-sanitari si occupano principalmente di insegnare all’adolescente come vivere nel mondo in maniera educata e produttiva: viene dato per scontato che l’individuo minorenne debba affidarsi a psichiatrə psicologə ed educatrici in modo incondizionato, privandolo pian piano della capacità di interrogarsi sul proprio volere. Così come la fobia scolare causata dal corpo docenti viene demandata interamente al* minore, consideratə per diagnosi l’unicə responsabile del proprio disagio, si insegna a3 ragazz3 che non ci sono motivazioni esterne alla loro individualità per la loro depressione, la loro disforia di genere, i loro pensieri anticonservativi. Continuamente, goccia dopo goccia, si passa loro il messaggio che è normale che gl3 insegnant3 l3 umilino, è normale soffrire se si è transgender – non è affatto colpa di un sistema che ti chiama con il deadname perché i tuo* genitori non ti danno il permesso di cambiarlo – mentre non è normale cadere in depressione e non vedere prospettive di futuro in un mondo che sta finendo le risorse naturali. Trattiamo gl3 adolescenti come se avessero tutta la responsabilità del proprio malessere, quando il loro malessere non è altro che l’effetto della distorsione patologica in cui siamo immers3.

Se da un lato le persone minorenni subiscono l’istituzionalizzazione dei servizi, dall’altro il loro potere decisionale viene continuamente calpestato da* genitori o dagl3 adult3 di riferimento: diamo sempre per scontato che prima dei diciott’anni non si possa scegliere dove e come vivere, con quale nome presentarsi al mondo, come collocarsi rispetto all’attualità delle questioni sociali. Per esempio, alcun3 ragazz3 vedono la propria vita sociale annullata a causa dei genitori no-greenpass, che hanno il potere di decidere se firmare o no l’autorizzazione al vaccino: sebbene 3 genitori possano avere sviluppato un pensiero politico di cui sono convint3, dovrebbe essere lə minore a scegliere se rinunciare a quei pochi incontri che il governo ancora permette. E di questo passo per ogni cosa. La persona minorenne è il campo di battaglia di un mondo di adult3 che sopravvive riproducendo le dinamiche opprimenti a cui si è arreso e di cui deve continuamente giustificare la bontà e l’esistenza imponendole a chi adultə sta ancora diventando.

In uno dei miei libri d’infanzia preferiti, Stargirl, la protagonista è una ragazza che nel corso della storia cambia nome, adattandolo al proprio percorso di crescita personale; nella nostra realtà, invece, la volontà dell’adolescente di sperimentare nuovi nomi è vista come il sintomo di qualche patologia. Stargirl era libera, si vestiva di bianco, aveva un topo, faceva regali agl3 sconosciut3 e si innamorava di co-protagonisti bellocci. Le Stargirl con cui lavoro sono libere anche loro malgrado, ma per quanto? Le Stargirl con cui lavoro sono ribelli e per ora resistono; ma per quanto?