CANTO NOTTURNO DI UN’EDUCATRICE ERRANTE PER L’ITALIA. Con derive marxiane.

di I

Quelli dell’Albo si scannano, istituiscono un potere, definiscono una professione, poi litigano per quel potere, dimenticano la deistituzionalizzazione. Non ho fatto in tempo a pensare: l’educazione è una pratica interdisciplinare, che i confini si sono stretti, hanno eretto muri che ci isolano e dividono, costringendoci a giurare che “l’Ordine siamo noi”.

Intanto mi pago il treno con un decimo del mio stipendio, ci salgo sopra pensando: come farò a sopravvivere? Che fai tu luna in ciel e come farò a pagare il meccanico, la psicologa, il riscaldamento? Che fai tu luna in ciel e come farò a dire alle ragazze che me ne vado, perché questo treno costa troppo e non mi danno i contatti delle vostre psichiatre, non posso fare lavoro di rete – e neanche lavoro d’équipe, perché per la seconda volta in due anni vengo discriminatx per il mio orientamento sessuale? Che fai tu luna in ciel, e come farò a cambiare lavoro, rinunciare a questa passione, trovare qualcos’altro che so fare – e chi me lo paga intanto l’affitto? Dimmi, che fai, se una quindicenne ti racconta una violenza e devi armarti come cavaliere (per fortuna cavaliere ci sei natx) per difenderla in équipe dalle illazioni delle colleghe che non le credono e quando le convinci l’unica cosa che puoi offrire a questa bimba è di fare un’attività, andiamo a fare una gita, perché anche se avessi i contatti delle psichiatre, quelle vedono la vita come patologia?

Dimmi, o luna: a che vale all’Albo la mia vita, la nostra vita di dimissionarie incallite?

Forse sono io, o forse è Marx a dire: non dobbiamo dimenticarci della vita, della fatica di queste lavoratrici. Si lavora, si discute, si amministra l’Albo e intanto noi soccombiamo sotto la frustrazione, il mobbing, gli psichiatri e i boomers. Mentre l’Ordine continuate a esserlo voi, noi ci stanchiamo, ritagliamo a fatica spazi di una vita sociale incattivita dal nostro stress, sviluppiamo sintomi di un disturbo dell’attenzione dato dall’impossibilità di staccare, di contemplare un libro, la montagna, la luna.

Forse i tavoli non dovremmo crearli, ma rovesciarli. Forse dovremmo prendere a martellate i muri e unirci, per dare il cambio a chi non ha le forze per continuare la lotta, per ascoltarci, abbracciarci, scioperare. Forse dovremmo andarcene a creare nuovi spazi lavorativi, forse dovremmo mummificare le cooperative, farci marea contro l’oppressione.

Forse sono io, o forse sono i Basaglia a dire: non ha senso lottare per il proprio giardino di rivendicazione senza coinvolgere le persone oppresse con cui lavoriamo. I nostri diritti di lavoratrici si intrecciano con quelli delle ragazze, di chi è senza casa, di chi ha allucinazioni cui nessuno crede, di chi è sottoposto al volere di un tutore scelto dalla famiglia, di chi non cammina senza appoggio, di chi non capisce Freud. Cosa sono le nostre lotte nelle istituzioni, se non comprendono coloro che l’istituzione la vivono?

Intatta luna, tale /è lo stato mortale. /Ma tu mortal non sei, /e forse del mio dir poco ti cale.

S’avess’io l’ale da volare Altrove, aprirei le porte di un bosco per risolvere nell’anarchia lo sfruttamento, l’oppressione, l’istituzione. 

Per esser’io l’ale, devo smettere di essere riflesso, farmi concretezza.

Perché forse non è un caso, che siamo disgregatə come professione che lavora nella frammentazione sociale. Siamo lo specchio di quelle che la psichiatria chiama patologie, e io vita. Finché cercheremo di scalare l’Albo e le ASL per trovare spazi di voce senza coinvolgere chi voce non ha; finché imposteremo una lotta dimentica di quelle altre, continueremo a perderci, a riflettere dolore, a incorporare dolore e solitudine.

Rovesciamo i tavoli, creiamo luoghi aperti di dialogo, impariamo ad ascoltare, dimentichiamo l’impostazione aziendale e pratichiamo una forma di liberazione comune.

Che cos’è l’educazione senza lotta per la libertà?