CRISI DI COSCIENZA. L’educazione come rivoluzione.

“Qui sull’arida schiena / Del formidabil monte/ Sterminator Vesevo, / La qual null’altro allegra arbor né fiore, / Tuoi cespi solitari intorno spargi, / Odorata ginestra, / Contenta dei deserti.”

È giovedì sera, sto tornando a casa dopo le solite 9 ore di lavoro. Qualcuno mi ha mandato una canzone e, mentre osservo una stella offuscata dalla nebbia, una voce dolce e a tratti dissonante spalanca le casse della mia auto tamarra. Così, improvvisamente, mi torna quel senso di mancanza.

Da più di tre mesi sto lavorando nel servizio educativo più privilegiato che abbia mai conosciuto: il contratto nazionale viene rispettato quasi alla lettera, il mio capo è gentile, ho l’opportunità di accedere a diversi tipi di progetti e di fornire risorse e servizi alle persone per cui lavoro; le mie giornate iniziano spesso con un’assistente sociale che mi offre il caffè e si concludono sempre con un ritorno nel bosco privo di stress. Con qualche attenzione riesco ad arrivare a fine mese e nei weekend spengo il telefono di lavoro (ho un telefono di lavoro!) e scorrazzo liberx in montagna.

Eppure, ogni tanto provo nostalgia. Ogni tanto mi manca quel centro diurno che mi faceva tanto arrabbiare con tutte le sue regole istituzionalizzanti. Mi manca quel pomeriggio passato a fumare sigarette con J. discutendo sul rapporto tra crescita personale e ribellione. Mi manca telefonare ogni mattina alla mia amica/collega S. per chiederle che attività ci inventiamo oggi, non cucina perché non abbiamo ingredienti, non disegno perché l’abbiamo fatto ieri, non lettura perché non abbiamo portato un libro, non boxe perché abbiamo i guantoni ma non il sacco, portiamole nel bosco, ci odieranno. Mi manca abbracciare, mi manca cercare di convincere A. a non andare a scuola, mi manca parlare con S. mettendo la coperta sul prato, mi manca vedere come P. impara l’antipsichiatria.

Mi manca il senso di comunità che si crea quando si lotta insieme.

Andando via dal centro diurno, quando avevo scelto di vivere in montagna dall’altra parte del Piemonte, mi ero dettx che avrei potuto scoprire nuovi abbracci, nuovi dialoghi, che avrei continuato a fare l’educatrice come mi era stato insegnato dall* ragazz* nell’ultimo anno. Non sapevo che quando si hanno risorse per lavorare, fare la rivoluzione è più difficile. Essere l’educatrice che vorrei è più difficile.

Come sul Vesuvio, anche i fianchi di queste montagne sono coperti di ginestre. Ragazz*, lo dico per voi che magari avrete un’interrogazione su Leopardi: il nostro Giacomo scrive che la ginestra simboleggia l’insensatezza del pensiero progressista, il quale afferma che la tecnica può renderci felici. Leopardi non sopporta i progressisti che pensano che tutto sia facile perché tanto l’essere umano può sconfiggere la natura e la sofferenza. Per lui la sofferenza e l’asprità della natura in cui siamo gettat* non si possono sconfiggere manco per il ca**o. Una persona di spirito nobile, allora, non è quella che si adagia sugli allori della comodità della tecnica e finge dentro di sé che questa comodità sia la felicità; la persona nobile è quella che non distoglie lo sguardo dalla durezza della vita e di fronte a questa durezza si unisce agli altri esseri umani in una “guerra comune”. La ginestra è la pianta che ricresce dopo gli incendi o le colate di lava del Vesuvio, che magari si piega, ma resiste. È il simbolo della resistenza sincera che porta vita e non comodità. (Comunque poi leggete anche quello che dice il libro, ché sapete che le mie interpretazioni sono sempre più sentite di quelle richieste dalle insegnanti).

Dicevo, l’educazione non è – se non è ginestra. Non è un caso che la professione educativa sia nata con la chiusura dei manicomi, un gesto di distruzione delle dinamiche oppressive. Se lavoriamo per la crescita e l’autodeterminazione delle persone, non possiamo che porci in conflitto con una società che quelle stesse persone vorrebbe escluderle e silenziarle. L’educazione è contenta dei deserti: si fa dialogo sui diritti in opposizione all’utilizzo dei farmaci come sedativo per non sentire lamentele e richieste; esula dalle scatole chiuse delle diagnosi e apre spazi relazionali e di reciprocità; rompe le regole che mettono al centro l’istituzione e le ridisegna sulla forma di ogni individuo.

L’educazione non è – se non è rivoluzione.

La canzone sta quasi per finire, quando realizzo che in questa mia nuova vita piena di comodità, paradossalmente sono chiamatx a lottare di più per rendere il mio lavoro portatore di libertà. In un servizio educativo in cui c’è quasi tutto, dovrò trovare nuove formule per aprire le istituzioni, perché le porte sono nascoste da un generale buon funzionamento. È più facile abbattere i muri quando questi sono evidenti; è più facile arrabbiarsi in riunione d’équipe quando il dialogo viene impedito; è più facile trovare spazi di liberazione collettiva quando c’è qualcosa contro cui combattere. Il paradosso del lavoro educativo sta qui: che quanto più viene represso, tanto più potrà trovare vie di liberazione.

Così, dopo tre mesi di privilegi nostalgici, ho capito cosa mi vuole dire questo senso di mancanza: che è già ora di tornare a essere ginestra.

I.