Che cosa ci faccio io qui?

di ?

Perché provo questo senso di angoscia?

Scelsi il percorso di studi universitario in educazione professionale per poter agire un cambiamento concreto e reale nella società in cui vivo. Dopo la maturità, non ero arsa da un delirio di onnipotenza o dalla sindrome della crocerossina, non avevo il desiderio di voler salvare il mondo intero perché avevo già iniziato a intuire che ci si salva da solə, se lo si desidera, con i giusti supporti e con un po’ di fortuna.

Ero più che altro un’entusiasta che molto aveva ricevuto e che per giustizia sociale voleva poter svolgere un lavoro utile e gratificante, dove la relazione di cura con l’altrə non fosse dettata da vocazione o volontariato, ma da professionalità, strumenti e ricerca.

Il percorso di studi mi aveva motivata: affermare i diritti delle persone, promuovere cittadinanza attiva, agire un welfare generativo, supportare nella quotidianità, rispettare la dignità umana, personalizzare gli interventi, attuare processi di deistituzionalizzazione, sostenere la territorialità, valorizzare e creare reti formali e informali, promuovere cambiamenti culturali, impiegare risorse in modo sostenibile e funzionale ecc. Erano tutti elementi che mi rincuoravano nell’aver scelto una professione storicamente giovane, debole ed economicamente non riconosciuta.

“Ma dai che carino che fai l’educatrice, lavorerai con i bambini”

“Pensa te, anche io sono educatore in parrocchia”

“Ma chi telo fa fare a lavorare nel disagio”

“Non sapevo che per fare gli educatori ci volesse una laurea, cosa vi fanno studiare?”

Queste erano alcune delle affermazioni e domande che ricevevo quando spiegavo la mia scelta di studi universitaria e già allora avevo capito che il lavoro culturale sarebbe stato tanto e quotidiano.

Una volta entrata nel mondo dei tirocini prima e del lavoro poi, mi sono accorta che tante favole teoriche che avevo appreso non venivano applicate nella realtà o, meglio, sebbene si affermasse di agire in maniera dignitosa e rispettosa delle normative, molte concettualizzazioni teoriche lasciavano spazio alle possibilità concrete del mondo dei servizi e delle istituzioni.

L’empowerment si scontrava con l’assistenzialismo, le regole interne dei servizi si scontravano con le libertà della persona, il supporto educativo si scontrava con esigenze di valutazione, la personalizzazione degli interventi si scontrava con mancanza di ore, personale e fondi, la vita indipendente si scontrava con l’istituzionalizzazione, la qualità con la quantità, la prevenzione con l’agire in emergenza, l’autodeterminazione con la possibilità di scelta in un range di opzioni prestabilito dove i ruoli e i poteri prevaricano i desideri delle persone.

Tutto questo contrasto non è visibile a occhio nudo, perché molti passi sono stati fatti e si stanno facendo per migliorare il welfare, le prese in carico delle persone e le condizioni di lavoro deə professionistə, ma con uno sguardo attento, le discrepanze sono concrete e reali e si celano dietro a frasi come “si è sempre fatto così” e “possiamo fare solo questo”.

Oggi viviamo in un sistema di istituzioni di cui facciamo parte e con il quale ci dobbiamo confrontare. L’esercizio della professione di educatore/trice nel mondo del lavoro odierno genera senso di incapacità e impotenza: il desiderio di supporto nella realizzazione di diritti ed emancipazione collude con meccanismi di assistenza che tendono a cambiare forma, ma a perpetrare nel tempo la stessa sostanza.

Specialmente ə giovanə, ancora attraversati dal soffio di cambiamento, si trovano a porsi tale quesito: “che cosa faccio io qui?” e ancora “perché sento tutta questa angoscia?” Domande sane che fanno comprendere che ci sia alla base qualcosa che non va e non funziona.

Il sistema da parte sua forma ed educa ə nuovə arrivatə ad adattarsi e ad accettare procedure, metodi e routine specifiche di un determinato servizio per mantenere la propria essenza immutata nel tempo. Il cambiamento concreto e reale, però, destabilizza l’ordine precostituito e per paura del caos che esso può generare si preferisce tenere sotto controllo l’innovazione. I cambiamenti quando accettati devono rientrare in determinati requisiti, che non sempre coincidono con il progresso scientifico e legislativo.

Quando l’impotenza ti devasta e non sai come fare, amplia il tuo orizzonte conoscitivo di servizi, metodi e pratiche, fatti ispirare da chi teorizza ed applica modelli rispettosi dei diritti delle persone.

Fare diverso si può ed è stato sia già teorizzato che applicato, basta solo diventarne consapevolə e promuovere un cambiamento graduale dal basso che sia prima di tutto culturale.

Se credessimo realmente nel fatto che glə utentə dei nostri servizi siano deə cittadinə, detentorə di diritti, che necessitano di supporto per migliorare la loro situazione contestuale e il loro stato di benessere, difficilmente potremmo osservare l’agire educativo di un servizio con il medesimo sguardo. C’è bisogno di uno sguardo deistituzionalizzato e coraggioso. Qualsiasi cosa proviamo a fare, nell’ottica del rispetto dei diritti delle persone, non può fare più danno di ciò che è stato già fatto senza tale sguardo.

“And I try – o my god do I try – I try all the time in this institution”

di I

Mentre scrivo questo post, sto ascoltando una persona ricoverata in psichiatria discutere con la dottoressa: il paziente chiede di essere aiutato a prendere in affitto una mansarda su cui attivare un servizio domiciliare di educatorə e infermierə, mentre la dottoressa gli comunica che passerà prima da una villa (i grandi ricoveri che hanno sostituito i manicomi). Il dialogo avviene più o meno così:

Paziente: ma se vado in villa mi toglieranno il telefonino e mi sentirò solo. Ho paura che rimanendo senza contatti andrò in paranoia.

Dottoressa: se glielo tolgono, è perché c’è un motivo che lei non sa.

Chi frequenta il sistema sanitario conosce le modalità più evidenti di istituzionalizzazione che hanno sostituito la violenza dei manicomi dopo la riforma Basaglia: dosaggi farmacologici che rendono le persone simili nella postura e nella camminata “zombesca”, rallentate nell’eloquio e nei movimenti; servizi in cui ancora si lega ai letti o in cui glə internatə devono avere il permesso del medico per uscire a prendere un caffè ecc ecc. Queste pratiche derivano sì da un’organizzazione del welfare estremamente medico-centrica e incurante dei diritti individuali, ma sono anche l’ipostatizzazione, l’attuazione concreta, di un’istituzionalizzazione invisibile – e quindi più subdola – che definisco relazionale.

La dottoressa descritta sopra agisce il proprio potere in due modi:

  • Decidendo del destino della persona senza ascoltare la sua opinione in merito
  • Impostando la relazione e il dialogo con il paziente in modo da impedirgli di sviluppare una volontà capace di rompere le sbarre dell’istituzione.

Voglio concentrarmi su quest’ultima modalità, che spesso noi operatorə del sociale attuiamo inconsapevolmente. La dottoressa dice: “se le tolgono il telefono, è per un motivo che lei non sa”: con pochissime parole, sta affermando che la persona non ha il diritto di decidere come e quanto usare il proprio cellulare; che la persona non è in grado di decidere come e quanto usare il proprio cellulare; che la persona deve delegare la gestione del proprio telefono a qualcuno che non ha scelto lei; quindi che la persona non possiede le competenze per scegliere come vivere e che queste competenze appartengono solo a non-si-sa-chi. Oltre a privare l’interlocutore dei propri diritti, la frase della dottoressa lo priva di qualsiasi possibilità di narrazione della propria vita e dell’autostima necessaria per prendere decisioni su di sé. I soggetti che vengono affermati da questo dialogo non sono più una persona in ruolo di medico e una in ruolo di paziente, ma un dio (non-si-sa-chi) onnisciente e onnipotente dinnanzi a un individuo che può scegliere se credere ed essere salvato, oppure ribellarsi e patire la conseguente punizione.

Subito dopo la chiusura della conversazione che ho riportato, la dottoressa ne apre un’altra con un uomo che è spesso polemico con la gestione del servizio: costui a volte alza la voce e si lamenta del fatto che il proprio letto è posizionato in corridoio e non in una camera, che non prende luce, che non ci sono attività destinate alla riabilitazione e alla ricreazione dei pazienti. A volte urla anche accuse paranoiche su deodoranti rubati, fino a quando non li ritrova. Tuttə lo sentono, perché il suo letto è davvero in corridoio, senza armadio o possibilità di privacy. A questa persona la dottoressa dice: “ti ricordi quando ti ho visto al supermercato qualche tempo fa? Eri adeguato. Questo significa che sai come ci si deve comportare”. Come quasi sempre avviene nei servizi sanitari italiani, in questa affermazione la richiesta viene scambiata per follia. Come se fosse una “roba da mattə” la voglia di avere uno spazio personale dove prendersi realmente cura di sé.

L’adeguatezza di cui parla la dottoressa è troppo spesso l’obiettivo dei progetti e dell’agire educativo. A fine turno, quando si deve scrivere come sono stati glə utentə nelle ultime ore, di solito si sintetizza con un “adeguatə”. Cosa significa? Che la persona ha aderito alle regole sociali e alle norme del servizio. Il problema è che le regole sociali sono anche quelle che governano e organizzano l’ingiustizia, che stigmatizzano le neurodivergenze, che silenziano le proteste e patologizzano le identità. Nel servizio in cui lavoro, per esempio, si è adeguatə quando si rispettano le regole di genere: se una persona non binaria che usa pronomi neutri e maschili (lui li usa, glə educatorə no) si mette una gonna, riceve i complimenti da tutta l’équipe. “Come sei bella”, “finalmente usi quello che hai nell’armadio”, “ma guarda come stai bene in abiti femminili”. L’esplosione di malessere e morte interiore che queste frasi provocano in chi le riceve si può percepire a chilometri di distanza. Ma in quel momento glə educatorə non vedono l’ingiustizia in corso, non si accorgono di stare calpestando l’autodeterminazione di un individuo, non comprendono neanche perché quella persona manifesti un malessere: vedono solo adeguatezza, e con l’adeguatezza la guarigione.

Credo che i processi che ho descritto non siano quasi mai attuati consapevolmente: ə professionistə coinvoltə nelle dinamiche sopra son davvero convintə di compiere il bene. Come noi, come me. Le professioni sanitarie e sociali investono di un potere che a volte diventa anche una consolazione, soprattutto per l’educatorə ignoratə e sfruttatə dalla società. Riversiamo in quel potere le frustrazioni che non abbiamo la forza di vivere, l’ansia di non essere abbastanza, la stanchezza di turni eterni. Diventiamo così istituzione: siamo noi le sbarre alle finestre e intorno alla persona, i lacci intorno ai polsi e l’umiliazione; siamo profetə di religioni malsane e legislatorə non elettə; siamo noi le regole sociali soffocanti, perché noi le produciamo giorno dopo giorno con le nostre parole e i nostri gesti.

Lavorare (decentemente) in ambito sociale significa rinunciare in ogni istante al proprio potere: analizzare le parole prima di pronunciarle; imparare a non dare per scontate le norme che ci hanno cresciutə; farsi più piccolə per dare all’altrə lo spazio per definirsi; stare zittə ogni tanto, e ascoltare.

E poi tornare a casa con la consapevolezza che abbiamo fatto una piccola parte, abbiamo consolato quella creatura distrutta dai complimenti sulla gonna, e che questa piccola parte potrà forse costituire un breve appiglio per affrontare le ingiustizie. Ma non sarà mai abbastanza.

Sale il magone, la coscienza che siamo parte di quell’odiata istituzione, che non riusciremo mai a salvare le persone per cui lavoriamo dalla violenza dell’istituzionalizzazione relazionale. Non rimane che accendere la macchina e riempire le casse dei 4NonBlondes: and I try  – o my god do I try – I try all the time, in the institution.

And I pray – o my god do I pray – I pray every single day for a revolution.

Sulla bellezza del fiore, o della pianta, che cresce nella crepa di un marciapiede. Alcuni spunti sull’educazione come rivoluzione.

di M

Preludio.

Come il cemento, duro, soffocante, soccombe al calore e si spacca, come la non flessibilità rappresenta il reale spiraglio di possibilità di essere crepa ed essere fiore nella crepa.

Non è della durezza, non è dell’irrigidimento, ma del suo esatto opposto la forza distruttrice e creatrice.

Ovvero…

Tempo fa passeggiavo a Milano, città per cui nutro una sorta di repulsione mista ad affetto e ricordi malinconici. Ero dietro a una stazione, in una zona grigia e super abitata, fatta di cemento e – per fortuna – scritte sui muri. In una crepa di questo grigiume, a un certo punto del mio camminare scazzato, ho intravisto un piccolo fiore nato da una pianta rampicante, germogliata da una crepa tra gli strati di cemento scuro e caldo – era agosto, un agosto davvero afoso – da una zolla di terra che non era nemmeno visibile dal mio punto di osservazione. Mi colpì tanto, troppo forse, e rimasi a guardarlo per un po’. Lo osservavo meravigliata, come una cosa rara, salvo rendermi conto poi che sullo stesso marciapiede, pochi metri più avanti, un’altra pianta aveva fatto irruzione riprendendosi diverse decine di centimetri. Erano tutti i giorni sotto i miei occhi, pensavo, e non mi ci ero mai soffermata così tanto e così a lungo. Quelle piante volevano dirmi qualcosa e forse solo in quel momento, in quel preciso istante, ero pronta ad ascoltarlo per davvero. O semplicemente era qualcosa che solo ora era pronto a emergere, ma era sempre stato lì.

In quel periodo della mia vita mi ero presa una pausa, una pausa dal lavoro educativo dopo quasi tre anni, quattro se facciamo una somma delle esperienze di tirocinio. Non mi ero presa una pausa, però, dal riflettere sul senso di quello che avevo fatto, scoperto ed esperito in quegli anni. Mi ero presa anche una pausa dall’ambiente militante, ma mai una pausa dal mio essere anarchica. Come mai accostare le due cose? Perché per me, nel mio essere educatrice, la spinta rivoluzionaria è fondamentale. Scegliere di “educare” per me significa scegliere volontariamente di cercare di aprire spiragli di possibilità altre e farlo attraverso la relazione con le persone che ho di fronte. E significa farlo con un pensiero e una riflessione educativa, per essere in grado di sostare nello spazio educativo, uno spazio sospeso tra la parola, il corpo e il desiderio, nel detto e nel taciuto, nel comunicato con gli occhi o con un tocco della mano, con la vicinanza e con la distanza.

Ma è qui che voglio inserire una questione, che in qualche modo ci riporterà al fiore e al marciapiede. La parola che voglio usare per introdurla è “norma”. La questione della “normatività”, ma anche in qualche modo della “normalità” e di ciò che socialmente rientra in essa, di ciò che non “devia”. Spesso l’educazione con questi termini va a braccetto, soprattutto perché il lavoro sociale ed educativo esiste nel momento in cui esiste una qualsiasi forma di “devianza” o di “marginalità” – senza fissa dimora, persone psichiatrizzate, prostitute, adolescenti, famiglie disfunzionali, persone neurodivergenti e via dicendo – o al limite esiste per evitare che bambine e bambini escano dalla “norma”, per indicare loro la via giusta per diventare persone grandi. E così la norma arriva a noi sotto forma di dispositivo pedagogico, di istituzione, e l’istituzione ci dice che le cose funzionano in questo modo e in quest’altro, il margine di azione si restringe e l’operatrice sociale si trova schiacciata contro e dentro parole come “regole”, “contenere”, “funzionare bene/male”, “valutare” e simili. Quante volte ci si sente frustrate perché ci sembra che tutto, nella nostra giornata lavorativa, giri intorno a quelle parole: far rientrare all’interno di schemi rigidi piuttosto che far emergere, tirare fuori – che poi non è altro che l’origine etimologica della parola “educare”.

Le rigidità si sovrappongono e si stratificano, come il cemento di un marciapiede, nello stratificarsi di cambi di Welfare e politiche sociali, cambi di sigle, cambi di gestione, cambiamenti socio-politici e storici. Si stratificano come parte di un sistema che è dato per scontato, nella quotidianità del lavoro sociale, e che nei suoi cambiamenti anche rivoluzionari (vedi la chiusura dei manicomi o l’apertura di servizi di riduzione del danno) si nutre tuttavia ancora di quel substrato morale, ideologico e teorico.

Ma la rigidità ha un difetto, che potremmo chiamare contro-indicazione, ciò che è rigido si può spezzare o quantomeno crepare. Ed è proprio in queste crepe, in queste piccole fratture del sistema, che l’operatrice e l’operatore socio-rivoluzionari si possono inserire, possono portare bellezza, ampliare la rottura con le radici del proprio pensiero e del proprio agito. Perché questi spazi di possibilità esistono ed esistono proprio perché l’altra e l’altro da noi li riconoscono e si lasciano meravigliare, che poi non è altro che un lasciarsi educare.

Per finire (o per iniziare)

Con il desiderio e l’auspicio di poter essere, o diventare, piante e fiori nelle crepe del sistema rigido e socialmente costruito della “normalità/normatività”, lascio un pensiero che trovo interessante:

“Se gli adulti si esprimono in termini di minaccia o di prevenzione-predizione, è senza dubbio perché pensano che quella attuale non sia un’epoca propizia al desiderio e che occorra innanzitutto occuparsi della sopravvivenza. E poi, si dicono, ‘per quel che riguarda il desiderio e la vita si vedrà dopo, quando tutto andrà meglio’. Ma è una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare dei legami e di comporre la vita in modo di produrre qualcosa di diverso dal disastro. […] L’utilità dell’inutile è l’utilità della vita, della creazione, dell’amore, del desiderio… L’inutile produce ciò che è più utile, che si crea senza scorciatoie, senza guadagnare tempo, al di là del miraggio creato dalla società.” (M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi)

 

Parziale fenomenologia dell’educatrice (femmina)

di I

Introduzione

Da decenni, in gran parte del mondo, viene messo in discussione il ruolo della donna nella società: prima con la sola rivendicazione di diritti come il suffragio universale, il divorzio, l’aborto, poi con l’elaborazione di teorie che fondino e accompagnino la lotta. L’evoluzione del discorso intorno al ruolo della donna ha visto il passaggio dal femminismo di separazione, che si allontana dal rapporto con il genere maschile, al femminismo intersezionale, che al contrario inserisce la lotta per i diritti delle donne all’interno del più ampio spettro dell’oppressione: le persone nere, quelle lgbtqia+, le donne, le persone con disabilità e con disagio psichico, le persone povere e quelle grasse subiscono tutte le stesse dinamiche di colpevolizzazione ed esclusione. Il femminismo intersezionale fornisce teorie e strumenti utili non solo alla lotta sociale, ma anche ad analizzare e interpretare la realtà con schemi differenti da quelli tradizionali, perché si concentra sulle dinamiche relazionali e sociali piuttosto che sulle caratteristiche degli oppressi o dei singoli gruppi sociali. Anche sul fronte clinico e su quello educativo l’intersezionalità potrebbe quindi costituire un approccio analitico e relazionale che purtroppo non è ancora stato esplorato a sufficienza. Sembra, anzi, che il contesto dei servizi alla persona sia isolato rispetto ai cambiamenti culturali che avvengono – seppur lentamente – nel resto della società. Basti pensare a quanto poco ci si formi e interroghi sulle modalità con cui le questioni di genere agiscono sulle relazioni educative, in un mondo che invece sta imparando a separare il ruolo genitoriale dal sesso biologico. O a come la maggior parte dei servizi educativi ignori la spinta pratica e teorica proveniente dall’attivismo delle persone con disabilità.

Così, l’ambito sociale che più di tutti dovrebbe e potrebbe promuovere il cambiamento, ne rimane tagliato fuori. Vogliamo qui tentare di bucare la bolla che circonda i servizi alla persona, concentrandoci sui vissuti delle educatrici, che spesso non lavorano in condizioni di parità rispetto ai colleghi educatori: dalla descrizione di come esse siano soggette a più stress e limitazioni, cercheremo di trarre riflessioni che possano creare un terreno fertile di discussione e dialogo.

Corpi, o dell’educatrice come donna

“Tu come rispondi quando ti chiedono se sei fidanzata?” è la domanda di molte giovani educatrici che affacciandosi al mondo del lavoro scoprono di dover imparare, e in fretta, a costruirsi un’identità in grado di resistere agli approcci degli utenti. Infatti, tra le prime competenze che non l’università, ma l’esperienza insegna, vi è la capacità di camuffare il proprio corpo, di dirottare gli sguardi, di inventarsi fidanzati inesistenti. D’estate, la vestizione dell’educatrice richiede accortezza: evitare gli shorts, i top troppo scollati, controllare che le camicette bianche non risultino trasparenti. È un processo talmente dato per scontato, che in breve tempo ci si ritrova ad avere un intero settore dell’armadio dedicato ai vestiti per il lavoro: non eleganti tailleur, ma t-shirts con il pregio di essere fresche e coprenti allo stesso tempo. È una strategia talmente interiorizzata, che ogni volta che fallisce provoca innanzitutto stupore: come può quella persona aver notato il mio seno, se esso non solo è nascosto, ma non è neanche del tutto mio, bensì appartiene al mio io-professionista? 

Non esiste stacco tra lo sguardo sessualizzante dell’utente – o del collega – e la trasformazione in corpo: si passa repentinamente dall’essere professioniste in servizio all’essere semplicemente donne.

Sia chiaro, siamo qui lontane dalla demonizzazione della sessualità, in tutte le sue accezioni e sfumature: è perfettamente naturale che le relazioni educative incontrino attrazioni, infatuazioni, sessualizzazioni. È però altresì evidente come i servizi educativi e socio-sanitari non siano esenti dalla pervasività della cultura patriarcale, che spesso riflettono inconsapevolmente in pensieri e azioni.

Immaginiamo un mondo possibile in cui uomini, donne e persone non binarie fossero considerate allo stesso modo: in una realtà di questo genere, le giovani educatrici non avrebbero bisogno di inventarsi un partner per sentirsi al sicuro, o per delineare i confini dell’asimmetria educativa. Al contrario, esse sarebbero ascoltate in quanto professioniste, a prescindere dal loro essere single o meno; né colleghi né utenti si permetterebbero di rivolgere loro sguardi oggettivanti o battute sessualizzanti, perché avrebbero chiaro che non si trovano di fronte a donne da ammaliare (o dominare), ma a educatrici con cui collaborare.

L’utente di un servizio che oltrepassa i confini posti dall’educatrice non lo fa né per natura né per devianza o disabilità, ma perché cresciuto e inserito in una società in cui la donna è e deve essere sempre approcciabile sessualmente; di conseguenza, la professionista è soggetta a uno stress lavorativo maggiore rispetto a quello che tocca i colleghi maschi. D’altra parte, però, manca un lavoro educativo in grado di contrastare gli insegnamenti del sostrato patriarcale e quindi volto non tanto ad aiutare la professionista oggettivata, ma a evitare in primo luogo che l’oggettivazione sussista. Così, l’educatrice che si affaccia al mondo del lavoro e subisce qualche commento inappropriato inizia presto a sentirsi in colpa e a ritenersi fallace sotto il profilo professionale: compra una t-shirt e impara a nascondersi.

Voci, o dell’educatrice come figlia

Non solo nascondere il corpo, ma anche il pensiero.

Il senso comune tende a definire il ruolo della donna come mediatore di conflitti piuttosto che detentore di opinioni e, così come in tutti gli ambiti di lavoro, anche in campo educativo le professioniste compiono più fatica dei colleghi per farsi ascoltare. Le giovani educatrici, spesso più preparate a livello teorico delle generazioni precedenti, devono fare i conti con l’idea diffusa e non sempre conscia che sono troppo giovani – e troppo donne – per avere opinioni precise e per sapere come realizzarle. Il confronto, in équipe o in riunioni di rete, spesso diventa una spiegazione che l’uomo di mezza età rivolge alla collega: quando non è una donna da osservare, l’educatrice è una figlia a cui insegnare come si lavora. Così, oltre a nascondere il corpo, essa impara presto a proporre le proprie idee a bassa voce o a presentarle come l’esito della mediazione di opinioni altrui per renderle più accettabili socialmente.

La tradizionale attribuzione di autorità e autorevolezza al genere maschile (mentre quello femminile è di solito caratterizzato da sensibilità, gentilezza e accondiscendenza) che determina queste dinamiche, si ripercuote anche sulle relazioni educative: nel mondo del sociale, infatti, è opinione comune che in ogni équipe debba esserci una componente maschile. Questa idea viene di solito presentata con due diverse argomentazioni:

a. la figura dell’educatore maschio serve nella relazione con certi utenti che sono abituati ad ascoltare e a rapportarsi con gli uomini più che con le donne.

b. la figura dell’educatore maschio serve per gestire al meglio i momenti di crisi. A questo proposito, si pensi come nel campo psichiatrico si dia particolare importanza alla presenza di colleghi uomini che possano condurre interventi contenitivi, verbalmente e fisicamente. Modalità che, tra l’altro, esplicita quanto siamo ancora lontani da un approccio dialogico e non autoritario al disagio psichico.

Assumendo che ogni proposizione poggia su strutture mentali e concezioni del mondo, (a) rivela l’incapacità dei servizi educativi di incidere sui paradigmi di pensiero che alimentano l’oppressione. Infatti, la richiesta di interagire principalmente con uomini, nella maggior parte dei casi, è determinata da pregiudizi di stampo discriminatorio: di conseguenza, il servizio che dà il proprio assenso a questa richiesta lo dà implicitamente anche alla forma logica patriarcale per cui è accettabile ascoltare di meno le donne. È evidente come un intervento di questo tipo non sia davvero educativo, bensì risponda a esigenze pratiche, di solito determinate dalla fretta di stabilire relazioni che riescano a contenere le emergenze. Invece, si potrebbe intervenire in molti modi senza passare un implicito messaggio di svalutazione delle educatrici: per esempio, si potrebbe instaurare un dialogo con l’utente riguardo alla sua difficoltà a interagire con le donne, o si potrebbe spiegare che le competenze educative non variano in base al genere. Queste soluzioni non solo eviterebbero di rappresentare la professionista come legittimamente trascurabile, ma sostituirebbero anche lo sterile assenso con la creazione di spazi di dialogo – e quindi con la possibilità di generare cambiamento.

Nell’analizzare (b), tralasceremo di affrontare il tema del contenimento fisico, che dovrebbe semplicemente essere abolito tramite la costituzione di servizi che antepongano la relazione e la prevenzione alla gestione dell’emergenza. Proviamo invece a chiederci cosa serve per gestire i momenti di crisi: una relazione educativa consolidata, autorevolezza, fermezza, sicurezza di sé, capacità di ascolto e di intuire i tempi del dialogo, pazienza, capacità di cura, confronto con i colleghi e sostegno dell’équipe. Nessuna di queste competenze è imputabile a un genere piuttosto che a un altro. Di conseguenza, delegare l’azione del contenimento al genere maschile significa (i) relegare la mascolinità in un ruolo paternalista che non ha origini biologiche e (ii) definire la relazione educativa solo in un’ottica emergenziale.

In definitiva, le argomentazioni con cui si giustifica l’assegnazione di alcuni interventi agli educatori non sono legittimamente fondate, perché entrambe derivano dalla convinzione, non supportata scientificamente, che gli uomini riescono a essere più autorevoli delle donne. Tuttavia, pur non avendo validità logica, queste argomentazioni sussistono e contribuiscono a togliere voce alle educatrici, che devono lottare più dei colleghi sia per trovare un posto di lavoro, sia per farsi ascoltare in équipe e ritagliarsi i propri spazi di azione educativa.

Conclusione

I servizi educativi e socio-sanitari sono per definizione portatori di cambiamento, nelle vite delle persone e nella società tutta. Eppure, la differenza di livelli di stress a cui sono soggetti i professionisti e le professioniste che vi lavorano rispecchia esattamente la struttura oppressiva del sistema sociale. Proprio perché l’educatore è agente di trasformazioni culturali e sociali, non vedere la discriminazione che le educatrici affrontano sul posto di lavoro significa rinunciare alla possibilità di intervenire sulla cultura maschilista che ci circonda. Invece, per essere davvero portatori di cambiamento, dobbiamo interrogarci su quanto e come le strutture logiche su cui si fonda la nostra società oppressiva influenzano il nostro agire professionale. E se troveremo che esse permeano pensieri, azioni e relazioni educative, modificandole nei nostri servizi potremo contribuire a scardinarle nella società intera.

Deistituzionalizzazione e diritti

Di ?

La legge n. 180 del 1978, che venne poi recepita nella legge n. 833, è stata frutto del processo di deistituzionalizzazione avviato dallo psichiatra Franco Basaglia ed è particolarmente significativa per quel che riguarda il sistema di servizi alle persone con disabilità psichiche, cognitive e relazionali. Essa impedì nuovi internamenti in manicomi psichiatrici, impostando una rete di servizi e presidi extra ospedalieri come luoghi deputati agli interventi di cura, prevenzione e riabilitazione, introducendo il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), formando i CSM (Centri di Salute Mentale), gli SPDC (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura), prevedendo nuove figure professionali, come glə assistentə socialə e glə educatorə, funzionali al sostegno  dei percorsi di vita delle persone con disturbi psichiatrici. Tuttavia, la vera e propria chiusura degli ospedali psichiatrici è avvenuta solo nel 1998, vent’anni dopo la promulgazione della legge 180, ormai colloquialmente e comunemente identificata come “legge Basaglia”.

Secondo il filosofo e giurista Norberto Bobbio, la legge 180 è stata una riforma concreta perché l’apertura dei manicomi al mondo esterno ha favorito una progressione dell’intera società verso forme più democratiche. Prima della riforma Basaglia, l’internamento, soprattutto nei confronti di alcune soggettività – come le donne che rifiutavano di aderire al ruolo di genere imposto dalla società, o le persone considerate non adeguate ai paradigmi del sistema – l’internamento era determinato dalla volontà di un parente, con il pretesto di presunta pericolosità sociale o autolesionismo, o atti di pubblico scandalo. Le persone ricoverate in manicomio, dopo trenta giorni di internamento venivano interdette, perdendo di conseguenza i diritti civili come il matrimonio e il voto: in nome della protezione e della tutela, veniva annullata qualsiasi forma di autodeterminazione e libertà di scelta.

La prima azione di Franco Basaglia è stata quella di riconoscere e validare la persona e non la malattia: ascoltando glə internatə, restituì loro voce e si impegnò a trovare forme di cura adeguate ai loro reali bisogni. Il mestiere della cura, quando viene esercitato nel rispetto dell’altro, richiede di saper stare nell’incertezza e di imparare a maneggiarla. Se il sé altrui non c’è perché smarrito dentro all’istituzione, non può esserci una relazione di cura. Se si opera nell’istituzione totale e si guarda alla malattia, ai limiti, alle diagnosi, difficilmente si può produrre un cambiamento di valori, una valorizzazione delle singolarità ed una polifonia di identità (Rotelli, 2015). La legge 180 restituì libertà, rispetto e riconoscimento dei diritti delle persone. Secondo lo psichiatra, solo un’autentica restituzione dei diritti alle persone può portare al riconoscimento della loro dignità umana ed è compito dei professionisti ribellarsi a situazioni in cui i diritti umani non vengono riconosciuti: “Noi quando parliamo di diritti umani, vogliamo, dobbiamo parlare realmente di diritti umani. Per questo, quando noi medici, infermieri, assistenti sociali, lavoratori vediamo le condizioni in cui vivono i nostri pazienti, non possiamo far altro che ribellarci perché è una situazione in cui i diritti umani sono realmente calpestati.” Glə operatorə non sono esclusivamente deə professionistə che esercitano dei ruoli, ma anche persone chiamate a stare dentro alla relazione. In particolare, Franco Basaglia ricercava operatori giovani con una mente professionale ancora flessibile e non precostituita sulla base del paradigma di cura precedente. La pratica professionale, secondo lo psichiatra, deve esser finalizzata al pieno riconoscimento dei diritti delle persone e non deve tollerare o adeguarsi a istituzioni in cui i cittadini vengono privati della loro possibilità di scelta. L’operatorə che si adopera per riconoscere la persona e i suoi diritti, opera su piani personalizzati, supporta e non si sostituisce, lavora nel territorio, a domicilio e nei luoghi di vita delle persone con cui si relaziona. Questo perché le persone al di fuori di un’istituzione totale necessitano di recuperare una dimensione sociale, di avere una rete di sostegno e in particolare di avere una casa e un lavoro (Rotelli,2015). È complesso costruire pratiche e culture del diritto, ma per farlo è necessario avviare percorsi di vita reali, come ad esempio i percorsi lavorativi, che non possono esser praticati all’interno di un istituto, ma solo in situazioni concrete, reali e quotidiane. Non basta semplicemente chiudere un’istituzione per far sì che cessino le pratiche istituzionalizzanti, occorre perciò un impegno costante e continuo per costruire nuovi servizi che siano deistituzionalizzati nella loro essenza. Lo psichiatra Franco Rotelli a tal riguardo afferma: “deistituzionalizzare la malattia era ed è la legge 180, deistituzionalizzare la follia è il nostro quotidiano prospettico compiuto. Ma occorrono, sia ben chiaro, ambiti e poteri per questo, partecipati ambiti, partecipati poteri. Occorrono luoghi o strutture, servizi e persone, autorità e contropoteri, trincee, macchine, le istituzioni della deistituzionalizzazione. Se l’oggetto non è più la malattia, se il paradigma è mutato perché l’oggetto è diventato l’esistenza-sofferenza dei pazienti, in rapporto con il corpo sociale, la deistituzionalizzazione è smontaggio dell’insieme di apparati (l’istituzione) legati al vecchio oggetto e la costruzione di nuovi servizi, le istituzioni affermate e affermanti un equilibrio instabile”.