Deistituzionalizzazione e diritti

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La legge n. 180 del 1978, che venne poi recepita nella legge n. 833, è stata frutto del processo di deistituzionalizzazione avviato dallo psichiatra Franco Basaglia ed è particolarmente significativa per quel che riguarda il sistema di servizi alle persone con disabilità psichiche, cognitive e relazionali. Essa impedì nuovi internamenti in manicomi psichiatrici, impostando una rete di servizi e presidi extra ospedalieri come luoghi deputati agli interventi di cura, prevenzione e riabilitazione, introducendo il TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio), formando i CSM (Centri di Salute Mentale), gli SPDC (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura), prevedendo nuove figure professionali, come glə assistentə socialə e glə educatorə, funzionali al sostegno  dei percorsi di vita delle persone con disturbi psichiatrici. Tuttavia, la vera e propria chiusura degli ospedali psichiatrici è avvenuta solo nel 1998, vent’anni dopo la promulgazione della legge 180, ormai colloquialmente e comunemente identificata come “legge Basaglia”.

Secondo il filosofo e giurista Norberto Bobbio, la legge 180 è stata una riforma concreta perché l’apertura dei manicomi al mondo esterno ha favorito una progressione dell’intera società verso forme più democratiche. Prima della riforma Basaglia, l’internamento, soprattutto nei confronti di alcune soggettività – come le donne che rifiutavano di aderire al ruolo di genere imposto dalla società, o le persone considerate non adeguate ai paradigmi del sistema – l’internamento era determinato dalla volontà di un parente, con il pretesto di presunta pericolosità sociale o autolesionismo, o atti di pubblico scandalo. Le persone ricoverate in manicomio, dopo trenta giorni di internamento venivano interdette, perdendo di conseguenza i diritti civili come il matrimonio e il voto: in nome della protezione e della tutela, veniva annullata qualsiasi forma di autodeterminazione e libertà di scelta.

La prima azione di Franco Basaglia è stata quella di riconoscere e validare la persona e non la malattia: ascoltando glə internatə, restituì loro voce e si impegnò a trovare forme di cura adeguate ai loro reali bisogni. Il mestiere della cura, quando viene esercitato nel rispetto dell’altro, richiede di saper stare nell’incertezza e di imparare a maneggiarla. Se il sé altrui non c’è perché smarrito dentro all’istituzione, non può esserci una relazione di cura. Se si opera nell’istituzione totale e si guarda alla malattia, ai limiti, alle diagnosi, difficilmente si può produrre un cambiamento di valori, una valorizzazione delle singolarità ed una polifonia di identità (Rotelli, 2015). La legge 180 restituì libertà, rispetto e riconoscimento dei diritti delle persone. Secondo lo psichiatra, solo un’autentica restituzione dei diritti alle persone può portare al riconoscimento della loro dignità umana ed è compito dei professionisti ribellarsi a situazioni in cui i diritti umani non vengono riconosciuti: “Noi quando parliamo di diritti umani, vogliamo, dobbiamo parlare realmente di diritti umani. Per questo, quando noi medici, infermieri, assistenti sociali, lavoratori vediamo le condizioni in cui vivono i nostri pazienti, non possiamo far altro che ribellarci perché è una situazione in cui i diritti umani sono realmente calpestati.” Glə operatorə non sono esclusivamente deə professionistə che esercitano dei ruoli, ma anche persone chiamate a stare dentro alla relazione. In particolare, Franco Basaglia ricercava operatori giovani con una mente professionale ancora flessibile e non precostituita sulla base del paradigma di cura precedente. La pratica professionale, secondo lo psichiatra, deve esser finalizzata al pieno riconoscimento dei diritti delle persone e non deve tollerare o adeguarsi a istituzioni in cui i cittadini vengono privati della loro possibilità di scelta. L’operatorə che si adopera per riconoscere la persona e i suoi diritti, opera su piani personalizzati, supporta e non si sostituisce, lavora nel territorio, a domicilio e nei luoghi di vita delle persone con cui si relaziona. Questo perché le persone al di fuori di un’istituzione totale necessitano di recuperare una dimensione sociale, di avere una rete di sostegno e in particolare di avere una casa e un lavoro (Rotelli,2015). È complesso costruire pratiche e culture del diritto, ma per farlo è necessario avviare percorsi di vita reali, come ad esempio i percorsi lavorativi, che non possono esser praticati all’interno di un istituto, ma solo in situazioni concrete, reali e quotidiane. Non basta semplicemente chiudere un’istituzione per far sì che cessino le pratiche istituzionalizzanti, occorre perciò un impegno costante e continuo per costruire nuovi servizi che siano deistituzionalizzati nella loro essenza. Lo psichiatra Franco Rotelli a tal riguardo afferma: “deistituzionalizzare la malattia era ed è la legge 180, deistituzionalizzare la follia è il nostro quotidiano prospettico compiuto. Ma occorrono, sia ben chiaro, ambiti e poteri per questo, partecipati ambiti, partecipati poteri. Occorrono luoghi o strutture, servizi e persone, autorità e contropoteri, trincee, macchine, le istituzioni della deistituzionalizzazione. Se l’oggetto non è più la malattia, se il paradigma è mutato perché l’oggetto è diventato l’esistenza-sofferenza dei pazienti, in rapporto con il corpo sociale, la deistituzionalizzazione è smontaggio dell’insieme di apparati (l’istituzione) legati al vecchio oggetto e la costruzione di nuovi servizi, le istituzioni affermate e affermanti un equilibrio instabile”.