Che cosa ci faccio io qui?

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Perché provo questo senso di angoscia?

Scelsi il percorso di studi universitario in educazione professionale per poter agire un cambiamento concreto e reale nella società in cui vivo. Dopo la maturità, non ero arsa da un delirio di onnipotenza o dalla sindrome della crocerossina, non avevo il desiderio di voler salvare il mondo intero perché avevo già iniziato a intuire che ci si salva da solə, se lo si desidera, con i giusti supporti e con un po’ di fortuna.

Ero più che altro un’entusiasta che molto aveva ricevuto e che per giustizia sociale voleva poter svolgere un lavoro utile e gratificante, dove la relazione di cura con l’altrə non fosse dettata da vocazione o volontariato, ma da professionalità, strumenti e ricerca.

Il percorso di studi mi aveva motivata: affermare i diritti delle persone, promuovere cittadinanza attiva, agire un welfare generativo, supportare nella quotidianità, rispettare la dignità umana, personalizzare gli interventi, attuare processi di deistituzionalizzazione, sostenere la territorialità, valorizzare e creare reti formali e informali, promuovere cambiamenti culturali, impiegare risorse in modo sostenibile e funzionale ecc. Erano tutti elementi che mi rincuoravano nell’aver scelto una professione storicamente giovane, debole ed economicamente non riconosciuta.

“Ma dai che carino che fai l’educatrice, lavorerai con i bambini”

“Pensa te, anche io sono educatore in parrocchia”

“Ma chi telo fa fare a lavorare nel disagio”

“Non sapevo che per fare gli educatori ci volesse una laurea, cosa vi fanno studiare?”

Queste erano alcune delle affermazioni e domande che ricevevo quando spiegavo la mia scelta di studi universitaria e già allora avevo capito che il lavoro culturale sarebbe stato tanto e quotidiano.

Una volta entrata nel mondo dei tirocini prima e del lavoro poi, mi sono accorta che tante favole teoriche che avevo appreso non venivano applicate nella realtà o, meglio, sebbene si affermasse di agire in maniera dignitosa e rispettosa delle normative, molte concettualizzazioni teoriche lasciavano spazio alle possibilità concrete del mondo dei servizi e delle istituzioni.

L’empowerment si scontrava con l’assistenzialismo, le regole interne dei servizi si scontravano con le libertà della persona, il supporto educativo si scontrava con esigenze di valutazione, la personalizzazione degli interventi si scontrava con mancanza di ore, personale e fondi, la vita indipendente si scontrava con l’istituzionalizzazione, la qualità con la quantità, la prevenzione con l’agire in emergenza, l’autodeterminazione con la possibilità di scelta in un range di opzioni prestabilito dove i ruoli e i poteri prevaricano i desideri delle persone.

Tutto questo contrasto non è visibile a occhio nudo, perché molti passi sono stati fatti e si stanno facendo per migliorare il welfare, le prese in carico delle persone e le condizioni di lavoro deə professionistə, ma con uno sguardo attento, le discrepanze sono concrete e reali e si celano dietro a frasi come “si è sempre fatto così” e “possiamo fare solo questo”.

Oggi viviamo in un sistema di istituzioni di cui facciamo parte e con il quale ci dobbiamo confrontare. L’esercizio della professione di educatore/trice nel mondo del lavoro odierno genera senso di incapacità e impotenza: il desiderio di supporto nella realizzazione di diritti ed emancipazione collude con meccanismi di assistenza che tendono a cambiare forma, ma a perpetrare nel tempo la stessa sostanza.

Specialmente ə giovanə, ancora attraversati dal soffio di cambiamento, si trovano a porsi tale quesito: “che cosa faccio io qui?” e ancora “perché sento tutta questa angoscia?” Domande sane che fanno comprendere che ci sia alla base qualcosa che non va e non funziona.

Il sistema da parte sua forma ed educa ə nuovə arrivatə ad adattarsi e ad accettare procedure, metodi e routine specifiche di un determinato servizio per mantenere la propria essenza immutata nel tempo. Il cambiamento concreto e reale, però, destabilizza l’ordine precostituito e per paura del caos che esso può generare si preferisce tenere sotto controllo l’innovazione. I cambiamenti quando accettati devono rientrare in determinati requisiti, che non sempre coincidono con il progresso scientifico e legislativo.

Quando l’impotenza ti devasta e non sai come fare, amplia il tuo orizzonte conoscitivo di servizi, metodi e pratiche, fatti ispirare da chi teorizza ed applica modelli rispettosi dei diritti delle persone.

Fare diverso si può ed è stato sia già teorizzato che applicato, basta solo diventarne consapevolə e promuovere un cambiamento graduale dal basso che sia prima di tutto culturale.

Se credessimo realmente nel fatto che glə utentə dei nostri servizi siano deə cittadinə, detentorə di diritti, che necessitano di supporto per migliorare la loro situazione contestuale e il loro stato di benessere, difficilmente potremmo osservare l’agire educativo di un servizio con il medesimo sguardo. C’è bisogno di uno sguardo deistituzionalizzato e coraggioso. Qualsiasi cosa proviamo a fare, nell’ottica del rispetto dei diritti delle persone, non può fare più danno di ciò che è stato già fatto senza tale sguardo.