Sulla bellezza del fiore, o della pianta, che cresce nella crepa di un marciapiede. Alcuni spunti sull’educazione come rivoluzione.

di M

Preludio.

Come il cemento, duro, soffocante, soccombe al calore e si spacca, come la non flessibilità rappresenta il reale spiraglio di possibilità di essere crepa ed essere fiore nella crepa.

Non è della durezza, non è dell’irrigidimento, ma del suo esatto opposto la forza distruttrice e creatrice.

Ovvero…

Tempo fa passeggiavo a Milano, città per cui nutro una sorta di repulsione mista ad affetto e ricordi malinconici. Ero dietro a una stazione, in una zona grigia e super abitata, fatta di cemento e – per fortuna – scritte sui muri. In una crepa di questo grigiume, a un certo punto del mio camminare scazzato, ho intravisto un piccolo fiore nato da una pianta rampicante, germogliata da una crepa tra gli strati di cemento scuro e caldo – era agosto, un agosto davvero afoso – da una zolla di terra che non era nemmeno visibile dal mio punto di osservazione. Mi colpì tanto, troppo forse, e rimasi a guardarlo per un po’. Lo osservavo meravigliata, come una cosa rara, salvo rendermi conto poi che sullo stesso marciapiede, pochi metri più avanti, un’altra pianta aveva fatto irruzione riprendendosi diverse decine di centimetri. Erano tutti i giorni sotto i miei occhi, pensavo, e non mi ci ero mai soffermata così tanto e così a lungo. Quelle piante volevano dirmi qualcosa e forse solo in quel momento, in quel preciso istante, ero pronta ad ascoltarlo per davvero. O semplicemente era qualcosa che solo ora era pronto a emergere, ma era sempre stato lì.

In quel periodo della mia vita mi ero presa una pausa, una pausa dal lavoro educativo dopo quasi tre anni, quattro se facciamo una somma delle esperienze di tirocinio. Non mi ero presa una pausa, però, dal riflettere sul senso di quello che avevo fatto, scoperto ed esperito in quegli anni. Mi ero presa anche una pausa dall’ambiente militante, ma mai una pausa dal mio essere anarchica. Come mai accostare le due cose? Perché per me, nel mio essere educatrice, la spinta rivoluzionaria è fondamentale. Scegliere di “educare” per me significa scegliere volontariamente di cercare di aprire spiragli di possibilità altre e farlo attraverso la relazione con le persone che ho di fronte. E significa farlo con un pensiero e una riflessione educativa, per essere in grado di sostare nello spazio educativo, uno spazio sospeso tra la parola, il corpo e il desiderio, nel detto e nel taciuto, nel comunicato con gli occhi o con un tocco della mano, con la vicinanza e con la distanza.

Ma è qui che voglio inserire una questione, che in qualche modo ci riporterà al fiore e al marciapiede. La parola che voglio usare per introdurla è “norma”. La questione della “normatività”, ma anche in qualche modo della “normalità” e di ciò che socialmente rientra in essa, di ciò che non “devia”. Spesso l’educazione con questi termini va a braccetto, soprattutto perché il lavoro sociale ed educativo esiste nel momento in cui esiste una qualsiasi forma di “devianza” o di “marginalità” – senza fissa dimora, persone psichiatrizzate, prostitute, adolescenti, famiglie disfunzionali, persone neurodivergenti e via dicendo – o al limite esiste per evitare che bambine e bambini escano dalla “norma”, per indicare loro la via giusta per diventare persone grandi. E così la norma arriva a noi sotto forma di dispositivo pedagogico, di istituzione, e l’istituzione ci dice che le cose funzionano in questo modo e in quest’altro, il margine di azione si restringe e l’operatrice sociale si trova schiacciata contro e dentro parole come “regole”, “contenere”, “funzionare bene/male”, “valutare” e simili. Quante volte ci si sente frustrate perché ci sembra che tutto, nella nostra giornata lavorativa, giri intorno a quelle parole: far rientrare all’interno di schemi rigidi piuttosto che far emergere, tirare fuori – che poi non è altro che l’origine etimologica della parola “educare”.

Le rigidità si sovrappongono e si stratificano, come il cemento di un marciapiede, nello stratificarsi di cambi di Welfare e politiche sociali, cambi di sigle, cambi di gestione, cambiamenti socio-politici e storici. Si stratificano come parte di un sistema che è dato per scontato, nella quotidianità del lavoro sociale, e che nei suoi cambiamenti anche rivoluzionari (vedi la chiusura dei manicomi o l’apertura di servizi di riduzione del danno) si nutre tuttavia ancora di quel substrato morale, ideologico e teorico.

Ma la rigidità ha un difetto, che potremmo chiamare contro-indicazione, ciò che è rigido si può spezzare o quantomeno crepare. Ed è proprio in queste crepe, in queste piccole fratture del sistema, che l’operatrice e l’operatore socio-rivoluzionari si possono inserire, possono portare bellezza, ampliare la rottura con le radici del proprio pensiero e del proprio agito. Perché questi spazi di possibilità esistono ed esistono proprio perché l’altra e l’altro da noi li riconoscono e si lasciano meravigliare, che poi non è altro che un lasciarsi educare.

Per finire (o per iniziare)

Con il desiderio e l’auspicio di poter essere, o diventare, piante e fiori nelle crepe del sistema rigido e socialmente costruito della “normalità/normatività”, lascio un pensiero che trovo interessante:

“Se gli adulti si esprimono in termini di minaccia o di prevenzione-predizione, è senza dubbio perché pensano che quella attuale non sia un’epoca propizia al desiderio e che occorra innanzitutto occuparsi della sopravvivenza. E poi, si dicono, ‘per quel che riguarda il desiderio e la vita si vedrà dopo, quando tutto andrà meglio’. Ma è una trappola fatale, perché solo un mondo di desiderio, di pensiero e di creazione è in grado di sviluppare dei legami e di comporre la vita in modo di produrre qualcosa di diverso dal disastro. […] L’utilità dell’inutile è l’utilità della vita, della creazione, dell’amore, del desiderio… L’inutile produce ciò che è più utile, che si crea senza scorciatoie, senza guadagnare tempo, al di là del miraggio creato dalla società.” (M. Benasayag, G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi)