“Ora cercherò un amico / Un lavoro / Poi, non lo so / Una casa, / Il decoro. / E poi ho visto solo mare mare mare tanto mare / Solo acqua, tanta, nei polmoni / Che fa male e non riesci a respirare; / Che ti chiedi i pesci come fanno, / Ma non lo diranno mai, / Lo sai. […] / Giù da questo scoglio, / Giù nel mare in verticale, / Giù e poi nuotare, / Non c’è altro da fare, / Senza bestemmiare, / Zitto e non fiatare, / Tanto l’anima non conta.”
(The Zen Circus, L’anima non conta)
Nelle ultime settimane ho ascoltato questa canzone centinaia di volte. Non capivo neanche io perché ce l’avessi sempre in testa, perché appena finiva schiacciassi il pulsante per farla ripartire. Poi, un giorno, qualcosa dentro me ha fatto un click, e mi ha detto: la mia anima conta. In quel momento, ho deciso che avrei lasciato il lavoro sociale.
Ho scelto di fare l’educatrice con gioia e consapevolezza: sapevo che avrei subito molto sfruttamento, ma ero prontx a lottare.
E ho lottato, a lungo.
Per sette anni ho usato il mio corpo, il mio pensiero e le mie azioni per proteggere le persone con cui lavoravo dalla violenza istituzionale dei servizi socio-sanitari.
Ho scelto di non rispettare regole imposte da psichiatri che confondevano l’abuso di potere con una comoda idea di terapia:
<Irene, mi fai uscire?>
<Palmina, la psichiatra non vuole, cos’hai fatto?>
<Ma niente, ho solo chiesto troppe sigarette>
<Ok, esci. Ma la psichiatra arriva tra 15 minuti, torna in tempo altrimenti mi fa il c*lo.>
E dopo 14 minuti, Palmina suonava il campanello, non per ubbidienza, ma perché sapeva di aver fatto un patto con me, che mi ribellavo al dominio di chi pensa di poter davvero proibire alle persone di passeggiare.
Ho scelto di portare da mangiare e da bere a una persona che i colleghi avevano sedato così tanto che non riusciva ad alzarsi dal letto. Secondo l’équipe, avrebbe dovuto trovare la forza di volontà per pranzare in sala mensa, mentre secondo me era prioritario che non morisse di disidratazione e accumulo di farmaci.
Ho litigato in riunione affinché si rispettasse l’identità di genere non conforme di chi frequentava il servizio.
Ho tenuto le mani di una donna così angosciata che quando tornavo a casa avevo i segni delle sue unghie sui polsi.
Ho tenuto le mani ad adolescenti che non riuscivano a mangiare.
Ho parlato a bassavoce a chi non dormiva.
Ho ascoltato storie di vita di famiglie perdute, di padri violenti, racconti deliranti e racconti un po’ strambi.
Ho abbracciato una marea di persone, e con qualcuna di esse ho anche pianto.
Ho subito un anno e mezzo di mobbing per aver parlato apertamente delle molestie verbali perpetrate da un collega. In quel periodo mi sono ammalatx, fisicamente e psicologicamente: ho passato una notte in ospedale e sono dovutx entrare in terapia. In quel periodo ho bevuto troppo e troppo a lungo, per dimenticare ciò che i miei capi mi facevano vivere a lavoro.
Ne sono uscitx, con le mie forze e il sostegno delle persone che mi vogliono bene.
Ho contribuito a fondare un’assemblea, la Rete del Lavoro Sociale, che rivendica i diritti che noi educatrici non abbiamo.
Ho aperto un blog, questo su cui sto scrivendo, di denuncia delle dinamiche oppressive messe in atto dai servizi socio-sanitari ed educativi.
Ho visto ragazzə liberarsi da malattie e da paure. Sono rimastx accanto a ragazzə che non riuscivano a liberarsene.
Abbiamo riempito un muro di disegni, e quando il capo ce li ha fatti togliere, li abbiamo appesi con dei fili.
Mi sono dimessx 3 volte.
Ho cambiato cooperativa 7 volte.
Ho iniziato a fumare per sopportare lo stress di turni troppo lunghi e di frustrazioni troppo pesanti.
Il lavoro educativo è quello meno pagato in Italia, tra le professioni che richiedono una laurea.
Il Contratto Nazionale delle Cooperative Sociali, ossia il pezzo di carta che regola le nostre assunzioni, prevede cose illegali, come le notti passive, per cui ci viene chiesto di passare la notte in servizio ricevendo solo un rimborso spese di 5 euro. Alle notti passive è anche possibile agganciare dei turni diurni, quindi a volte ci capita di lavorare per 17 ore di fila.
Il sistema degli appalti, per cui il pubblico delega alle cooperative sociali, ossia ad aziende private, la gestione dei servizi educativi e socio-sanitari, fa sì che si giochi al ribasso per vincere le gare. E il ribasso siamo noi. Gli Enti Locali chiedono prestazioni economiche, le cooperative anziché rifiutare queste condizioni le accettano passivamente e presentano progetti che siano appetibili economicamente. Nella pratica, tagliano i nostri stipendi, non risarcendo i nostri spostamenti in macchina, non pagandoci quando l’utente è assente, sfruttando il sistema della banca ore per farci lavorare gratis e non retribuire gli straordinari.
La colpa è anche nostra, che stiamo in silenzio. Se ogni professionista del welfare si informasse e richiedesse ciò che gli spetta, le cooperative sarebbero costrette a rifiutare le gare d’appalto giocate al ribasso, gli Enti Locali dovrebbero stanziare più soldi per il welfare, e via dicendo.
La colpa è anche nostra, ma conosco la fatica che porta al silenzio. So quanto lo sfruttamento possa logorare la mente e il corpo, generando un burn out che non può essere curato, perché i nostri stipendi non ci permettono di pagare la psicologa o di fare sport.
Se ho deciso di lasciare il lavoro sociale, quindi, non è per responsabilità delle persone utenti con/per cui ho lavorato in questi sette anni. Lo stress, per noi professionistɜ del welfare, non arriva da chi ha un disagio psichico, fisico o sociale, ma da come esso viene gestito all’interno delle istituzioni.
Le mie spalle sono stanche, perché hanno sollevato scudi e lance con cui ho dovuto combattere, quotidianamente, affinché il mio lavoro portasse liberazione e non oppressione. È questa la grande contraddizione della professione educativa, almeno in Italia: che lavorando con il dialogo e la relazione, dovremmo creare libertà e diritti; invece, ci viene richiesto di portare chiusura, silenzio e repressione.
Restare in questa contraddizione, trovandone le pieghe e gli interstizi in cui costruire qualcosa di positivo ed emancipatorio, è stata l’esperienza più appassionante della mia vita.
Ho amato il lavoro educativo profondamente.
Ora sento che è giunto il momento di dichiarare il mio fallimento: sapevo fin dall’inizio che avrei perso la lotta contro le ingiustizie del welfare. Ora è il momento di compiere l’ultimo intervento educativo, e mostrare con le mie azioni che prendersi cura di sé è un diritto.
La mia anima conta, le vostre anime contano.
Continuate, o iniziate, a rivendicare i diritti che vi spettano. Ribellatevi a istituzioni che dovrebbero curare e invece schiacciano. Create, con il vostro pensiero e le vostre azioni, lo spazio che vi è necessario per esistere a pieno.
Esistete!
Resistete!
Io continuerò a lottare insieme a voi, in assemblea e fuori, per un welfare pubblico e sostenibile.
Grazie, per questi 7 anni, a chi ha lottato insieme a me.
Fanculo a chi ha scelto di stare dalla parte dell’oppressione.
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“Tu libera e felice vai, / Mi ritrovi dove sai”.
L’educatrice indisciplinata (cit), Irene