di GBB
Sono seduta sul mio letto, come sottofondo la canzone “a mano a mano” di Gaetano. La porta della mia camera è spalancata e vedo i “matti” fare avanti e indietro nel corridoio senza uno scopo preciso. Alcuni ci chiamano pazzi, squilibrati, ci chiamano paziente x. Gli infermieri passano, ci danno la terapia e se ne vanno. Quando ci sei dentro però, inizi a scoprire che ognuno di noi ha una storia, una storia che non interessa più di tanto al sistema sanitario. Ho conosciuto E., un paziente con un disturbo bipolare, come me. Ama la musica. Poi c’è M., che lavorava qui in ospedale, non so cosa sia successo, ma è incazzato con la vita. Poi c’è P., che si dimentica ogni volta come mi chiamo, ho perso il conto delle volte in cui mi ha chiesto il mio nome. Certe volte mi chiama G***a, ma non è questo il punto. Cerca di dimostrarmi che mi vuole bene. Nella stanza con me c’è I.. Lei ha paura. Ha dormito su una sedia in corridoio tutta la notte. Insomma, tutti qua, con la nostra diagnosi, veniamo ritenuti come un gruppo esterno alla società, proprio perché la follia viene vista come qualcosa che spaventa. Vorrei ribaltare le cose. Noi “matti” proviamo le stesse emozioni che provano tutti, forse solo più amplificate. La nostra follia, se gestita bene, possiamo trasformarla in qualcosa di incredibile. E come si impara a gestirla? Di certo non sedandoci e lasciandoci su un letto, cosa che viene fatta perché costa molto meno di una psicoterapia, costa meno sedarci piuttosto che far partire nuovi progetti grazie ai quali possiamo imparare a vivere nonostante la malattia mentale, in cui possiamo renderci conto che noi non siamo la nostra malattia, siamo semplicemente persone che forse hanno provato a dare un senso alla vita, ed è in quell’esatto momento che vieni definito pazzo, quel momento in cui cerchi un senso a tutto questo e non riesci a trovarlo.