di I. Per chi vive il feudo libero.
Oggi, 25 ottobre 2022, ho indossato la felpa rosa con su scritto “protect trans kids”, mi sono concentrata sul respiro e ho varcato la soglia del centro diurno. Era il primo giorno dopo due settimane di ferie e ad attendermi c’erano otto braccia e mille commenti tipo “che ciuffo orribile hai oggi”, che nel linguaggio della nostra relazione educativa significa: “mi sei mancata, ti voglio bene”. Per una mezz’ora ho ascoltato i riassunti dei gossip: una cucina piena di adolescenza che aspetta il proprio turno per dire con chi si sta frequentando, quante cose non sai che mi sono successe in queste due settimane, stasera ho un appuntamento, mi sento molto meglio e sto riuscendo a mangiare. Uno sguardo obliquo alla mia collega e compagna e ci siamo radunat* in sala di disegno. Non è difficile chiamare in riunione una decina di adolescenti, quando per mesi si è lavorato per dare loro la possibilità di esprimere la propria opinione, per convincerl* dell’importanza del loro pensiero, per trasmettere il diritto al dissenso anche verso noi educatrici. I muri della sala sono coperti di disegni di cervelli aperti e sofferenti, identità di genere non conformi messe su carta, brain storming sul corpo, sull’Antigone, sulle emozioni. Sono i muri su cui abbiamo scelto di lavorare insieme, stabilendo un’alleanza tra educatrici e utenti di cui nessuno parla ai capi, perché siamo il centro diurno ribelle, le carbonare. Dopo avere studiato il feudalesimo per preparare una verifica abbiamo dichiarato il nostro servizio un feudo libero. Ma lo si dice sottovoce, collega a collega, mentre una vocina dall’altra stanza chiama “educatrice indisciplinata, vieni a interrogarmi”. Perché questa decina di adolescenti forse lo sa, quanta creatività e fatica abbiamo impiegato per proteggere con i nostri corpi e la nostra professionalità le loro soggettività dall’appiattimento che la società vorrebbe. Come i nemici di Dostoevskij, vorrebbero livellare le montagne e le differenze, mentre noi – nel nostro feudo libero – diciamo: siamo montagne, lottiamo per esserlo.
Ascolto il respiro, mentre la solita vocina si siede per terra lamentandosi perché non le ho lasciato la sedia e dissertando sulla necessità che le educatrici restino in piedi, se proprio vogliono fare una riunione. I capi hanno deciso, cambio servizio. 10 lunghissimi secondi di silenzio. Dal pavimento, un “ma che cazzo” e dei singhiozzi. Oggi avremmo dovuto fare attività sulle emozioni, invece ci siamo abbracciat* per ore. Oggi avremmo dovuto fare un’attività strutturata, invece – ancora una volta – abbiamo deistituzionalizzato e ci siamo lasciat* attraversare dalla tristezza.
Siamo professionist* e siamo corpi. Quante volte ci siamo dimess* perché non reggevamo fisicamente i turni in comunità o le territoriali di inverno. Siamo corpi che vivono lo stress, la fatica, la malnutrizione quando non ci pagano per mesi. E siamo anche corpi che abbracciano. Nel nostro feudo libero, ci siamo sempre fatt* tante coccole. Abbiamo anche fatto dei picnic, decidendo di saltare scuola per andare a parlare della vita dopo aver steso una coperta sul prato. “A., è più importante la salute mentale o la scuola?” “La salute mentale, Ire”; “A., a scuola ti insegnano a stare bene?” “No, Ire. Ma tu non dovresti dirmi che devo provare ad andare a scuola?” “No, A., perché stai soffrendo troppo. Ti puoi fermare.” – e giù di abbracci.
Quando ci dicono che svolgiamo un lavoro di cura, noi Social Frogs ci arrabbiamo. Perché con questa storia della cura hanno sminuito e sfruttato la nostra professione. Ed è vero che non è cura. Oggi, mentre abbraccio delle piccole teste singhiozzanti, mi sento montagna. Sento la crescita comune – e non la cura – passare attraverso i nostri corpi intrecciati, corpi offesi e martoriati che si appoggiano alla mia spalla, che bagnano la mia felpa rosa.
Sento che ho la forza per farvi appoggiare, piccolezze. Siamo cresciut* insieme – è questa la mia professione. I miei piedi sono radicati a terra, sono la montagna che può sostenervi, mentre sussurro all’orecchio di A.: “guarda che non sparisco”.
Fumo una sigaretta con P. Per mesi non ho fumato perché l* adolescenti me lo impedivano e io lasciavo che si prendessero cura di me. Oggi mi hanno dato il permesso.
Mi tolgo la felpa e la butto sul letto.
Poi, d’improvviso, smetto di essere montagna. E piango anche io.
Mi mancherete, piccol* ribell*.
. la vostra educatrice indisciplinata